Lo sgombero

Il ritorno, gli abbracci e la mia voce tremante, i sorrisi degli occhi: solo questo avevo in mente in un già caldo pomeriggio di aprile, mentre eravamo tutti seduti fuori a mangiare il gelato.
Ero appena tornata in questo posto sbagliato e indegno, a cui si tenta di coprire il sapore con la vicinanza umana e con chili di zucchero nel tè.
Ho sempre notato la strana capacità dei siriani di passare in un solo secondo da un argomento stupido e scherzoso ai discorsi seri e tristi, come le torture subite in carcere o la disperazione di vivere in quelle condizioni.
Esattamente allo stesso modo, quel pomeriggio in cui mangiavamo il gelato e fingevamo che questa vita fosse normale, due grosse jeep militari cariche di soldati hanno fatto violenta irruzione nella nostra intima e già fugace tranquillità.

Soldati armati in tutto il campo, bambini spaventati, adulti terrorizzati.
"Dovete togliere queste due tende entro due giorni, o le distruggeremo".
E di nuovo via, veloci come erano arrivati.
Il velo di felicità che mi avvolgeva si era rotto, la paura e la tristezza della cruda realtà avevano già preso il suo posto. Sulle spalle il carico dei sospiri di queste persone, che con una sola frase ci ricoprono di onori ed oneri: "Qui non abbiamo altro sostegno se non il vostro".
Così anche con le spalle pesanti abbiamo corso veloci, controvento e contro il tempo.
Quarantotto ore e dopodiché due famiglie,con rispettivamente quattro e cinque bambini a testa, sarebbero rimaste senza quell'ammasso di legno e robaccia che chiamano casa.
Poi quelle quarantotto lunghe ore sono trascorse in un attimo ed i soldati sono tornati al campo. Questa volta determinati a distruggere, ad umiliare chi già vive indegnamente, chi già soffre, chi già è stanco.
Corriamo fuori, ci parliamo e loro non credono che degli italiani possano vivere con dei profughi siriani, con delle “non persone”.
Niente sembrava poterli far desistere, determinati e forti con quelli che pensano deboli... stretti anche nella morsa della criminalità locale.
Così, li hanno obbligati a distruggere le proprie tende.
Tutte le corse sembravano inutili, finché l'intervento di un rappresentante del Comune è riuscito a stoppare la loro cieca convinzione.
Solo per ora, solo a condizione che venga costruito un altro muro attorno al campo, così che le vite di queste persone possano non disturbare gli sguardi di quelle che invece contano.
Mentre in Italia sembra che la guerra in Siria sia iniziata l'altro ieri con l'attacco americano, qui chi è profugo da anni ed anni, continua ad incassare ogni giorno i pesanti colpi della crudeltà, strutturata e pianificata per rendere non credibile la vita dopo essere scappati alla morte.
Qui non c'è giustizia, non c'è dignità.
Qui siamo al confine: quello con la Siria, quello tra la propria casa distrutta ed il proprio rifugio minacciato, tra la dittatura atroce, la guerra e la pace finta, fatta di soprusi e contraddizioni.
Le tende sono ancora lì ed i soldati non sono ancora tornati.
Forse lo faranno, forse no.
Quel che è certo è che le ingiustizie non finiranno, che la rabbia continuerà a fare male allo stomaco.
Ma anche che loro ci guarderanno negli occhi tutte le volte, mentre ci chiederanno di aspettare insieme i soldati.
Ed a me piace pensare che con la nostra presenza, gli diamo solo una briciola di quella forza e resilienza che dimostrano di avere e che a noi regalano smisuratamente.

P.