Caffè e semi di girasole

Veli leggeri e colorati, veli scuri, teste scoperte.
Sguardi timidi, sguardi sicuri.
Essere una volontaria qui vuol dire stare con tutti i profughi, quindi avere anche la possibilità di stare con le donne, cosa che non sempre è possibile o scontata per i volontari di sesso maschile. Quando si chiudono le porte siamo solo noi: donne che si raccontano, si liberano di strati di stoffa e di pensieri.
Molte sono giovanissime ed in Siria andavano a scuola, volevano continuare a studiare e realizzarsi.
Poi la guerra e la vita che si rinchiude in una tenda, portando tra le varie conseguenze spesso anche il matrimonio in adolescenza, perché non vedevano altre prospettive possibili per il loro futuro, e la divisione ancora più netta della società, in questo luogo che non lascia spazio.
Donne che si fanno carico di intere famiglie, donne che affrontano a pieno viso le tempeste.

Ognuna ha la sua storia e la sua lotta, che non si può certamente misurare dai centimetri di pelle coperti o scoperti, dai capelli al vento o nascosti sotto ad un velo.
In mezzo a loro c'è anche Amal, una ragazzina di vent'anni che stringe sempre le spalle come a rinchiudersi in sé stessa, e questo la fa sembrare ancora più minuta.
Il suo volto raccoglie tutta la sofferenza di chi ha subito troppe violenze: il primo matrimonio a quattordici anni, la guerra, la vita in un campo profughi ed ora anche la ferocia di un marito che si accanisce contro di lei.
Lui è un ragazzo giovane che non parla e non sente, all'apparenza dolce e gentile.
Invece tutte le notti la picchia e abusa di lei, anche adesso che è incinta.
Amal ci racconta il suo dolore, i suoi occhi ci chiedono aiuto.
Vuole scappare via da lì e andare in un posto in cui poter semplicemente vivere, senza il terrore di un uomo e della sua assurda crudeltà.
Ha paura e la sua luce è spenta, ma ancora conserva una speranza e la mette nelle nostre mani. Dovrà tirare fuori tutta la forza che non sa ancora di avere, alzare la testa e allargare le spalle, senza più paura.
Manar invece di forza ne ha da vendere e lo sa benissimo.
"Rimani forte" le abbiamo detto ingenuamente, "più di così?" ci ha risposto con il tono ironico ed aspro che la contraddistingue, facendoci quasi sentire l'imbarazzo di chi ha detto una stupidaggine.
Sempre presa dalla sua lotta contro il mondo, si affanna per far fronte alle fatiche quotidiane. Vorrebbe solo salvare la vita di suo figlio, che ha una malattia rara e potrebbe avere accesso alle cure solo in Europa, mentre suo marito non vuole partire e sembra che niente possa smuoverlo.
Con noi si sfoga e impreca, poi scherza, ci prende in giro, poi trema, poi di nuovo si calma e prova a rimettere in ordine i pezzi dei suoi pensieri complicati.
Manar fa fuoco e fiamme, ma poi dice che non avrebbe il cuore per lasciare suo marito perché ha fatto tanto per lei.
Dentro ha la guerra come il suo Paese, vive un conflitto interiore cruento.
È vittima delle dinamiche della dipendenza affettiva e della violenza, aggravate dall'urgenza della malattia di suo figlio.
 Corre e si affanna ma non sa verso dove, non sa se troverà il coraggio.
Lei intanto corre e va avanti, sperando che tutti i suoi sforzi la porteranno in un posto in cui potrà semplicemente fermarsi e riposare serena, come quel gruppo di donne siriane che ho incontrato un giorno in cui ero triste ed ho fatto una passeggiata al parco: sedute in cerchio sul prato bevevano caffè, mangiavano semi di girasole e ridevano tantissimo.

Paola