Facciamo strada insieme

Khadija è un nome che mi è sempre piaciuto, è un nome preislamico.
La prima volta in cui mi sono imbattuta in questo nome è stato parecchi anni fa, sui libri dell'università.
Khadija, infatti, è la prima moglie del profeta, nonché la prima credente, tant'è che è riconosciuta la 'Madre di tutti i credenti'.
Questa figura mi ha sempre affascinato anche perché questa donna è stato il primo supporto non indifferente e la prima credente di colui che avrebbe cambiato, con le sue parole e fatti, l'assetto religioso del Medio Oriente.
Quest'estate abbiamo conosciuto Khadija una donna forte e determinata che mi ha colpito per la sua risolutezza.
É arrivata una mattina in tenda e ci ha chiesto di accompagnarla, non verso un luogo, ma lungo il percorso di suo figlio Hamjad. Lui, a soli diciannove anni, ha lasciato questa terra.

Il percorso è stato tortuoso. Khadija e noi volontari, che eravamo al campo, abbiamo cercato di smuovere quanto possibile le acque per trovare una soluzione e degli aiuti che potessero far fronte alle costose spese mediche per le terapie di Hamjad. Niente.
I nostri sforzi congiunti non hanno portato a nulla, anche perché la sua salute peggiorava di giorno in giorno. Khadija dunque ha fatto l'ultimo tentativo e ha attraversato il confine: a pochi chilometri, si sa che, nonostante imperversi il conflitto, la sanità è pubblica. Ma il viaggio è lungo e la giovane età di Hamjad non sfugge ai controlli delle milizie, e nonostante la malattia viene invitato a presentarsi per la leva una volta guarito. Ma lui non ce la fa.
Khadija ha seppellito suo figlio nella zona d'origine, vittima anch'essa della guerra che ormai ha distrutto gran parte di quello splendido Paese a noi descritto quotidianamente con nostalgia e dolcezza.
Ho visto e avuto l'occasione di vedere personalmente Khadija e parlare con lei solo poco tempo fa, quest'estate non avevo avuto l'opportunità per via dei molti impegni che spesso ci prendiamo.
Ma, insieme ai volontari che erano andati a trovarla, abbiamo chiamato e cercato organizzazioni per alleviare il peso economico delle terapie di Hamjad o trovare altre soluzioni.
Lei è tornata nella terra dei cedri da poco. Ci racconta il viaggio con Hamjad in modo lucido e lineare, non tralascia i dettagli, sembra aver raccontato la storia e i due mesi passati dall'altra parte obiettivamente e senza inserire il dolore per la perdita.
Ci chiede di segnalare l'altro figlio e la sua famiglia per gli aiuti delle Nazioni Unite. Lei, adesso, pensa alla famiglia rimasta qui e che vuole tornare in Siria, a casa, a conflitto terminato.
Quando stiamo per andare, prende in braccio la nipotina di più o meno tre anni. Khadija ci dice che la bimba chiede ancora spesso di zio Hamjad, prima sempre in giro a casa e oggi assente, e non ce la fa a trattenere le lacrime. Si sfoga e noi restiamo li accanto a lei.
L'accompagniamo ancora nella sua personale lotta per far stare bene e vivere in maniera dignitosa i suoi figli. Siamo ancora con lei e facciamo strada insieme, perché noi ci crediamo e soprattutto perché è lei la prima a crederci, esattamente come la Khadija del profeta.

Theis