Non dirmi che hai paura

Suona il telefono, si illumina vibrando, so già che messaggio contiene e mi viene una sensazione di nausea mista a stanchezza. Sono le dieci di sera, non posso rispondere e dare filo alla comunicazione anche a quest’ora, o non esisteranno più limiti, ne spazi personali.

Suona di nuovo, stavolta insistentemente, è una chiamata in arrivo, prefisso +961, un numero registrato in Libano, nome in caratteri arabi: Ritaj. Sicuro è Siriano, ci potrei giurare, un’altra persona che chiede di poter venire in Italia attraverso i corridoi umanitari, l’ennesima, a fronte di pochi visti a disposizione.

Stoppo la chiamata scorrendo lo smartphone verso destra, improvvisamente mi viene una tentazione, anche se il sentimento di vergogna fa subito capolinea dentro la mia testa, perché non bloccarlo? Basta! Devono capire che ci sono dei limiti nella vita di un essere umano e questo oltretutto è il mio numero privato. La chiamata continua, lo stoppo di nuovo e con un sospiro pesante vado a leggere sul profilo WhatsApp  le informazioni di chi mi sta cercando, cerco con gli occhi la funzione “Blocca contatto”. Mi è già successo in fondo, devo farlo o non uscirò più da questo circolo di pressioni.

Mentre la mente elabora questo impulso di rifiuto sento qualcosa rallentarmi, è una sensazione di calore, di dubbio, di improvvisa calma, di pietà umana e senza retoriche. Apro la chat e vedo che l’interlocutore notturno ha già iniziato a scrivere un messaggio, la prima parola è in arabo: “Halu”.

“Sono un Siriano e vivo in Libano (lo sapevo!). Mia figlia è malata di cancro per favore aiutami a venire in Italia.”

Sento una sensazione stringente al petto, maledizione, che casino, e io che stavo pure per bloccarlo, senza troppi complimenti, chissà questa persona quanto avrà desiderato vedere illuminarsi la parte superiore della chat con la scritta “Sta scrivendo…”.

Lo so già dove mi porterà tutto questo, dopo pochi minuti nello schermo iniziano a comparire fogli di visite mediche, un codice di registrazione presso l’Alto Commissariato dei diritti dei rifugiati e un flacone di liquido trasparente.

“Vi prego aiutatemi”. La voce di un uomo risuona sommessa dall’altra parte del messaggio vocale, rispondo, lui continua, la conversazione a distanza si fa fitta. Sua figlia ha 3 anni, le Nazioni Unite non pagheranno la chemioterapia. Impreco sommessamente, ma non troppo. Abbiamo da anni a che fare con un sistema allucinante, che ti lascia morire nella disperazione.

Mi manda la foto di sua figlia, una bella bambina riccioluta in un letto d’ospedale, con un paio di occhiali spessi, e uno stetoscopio giocattolo con cui prova ad “ascoltare” il battito di un bambolotto seduto sulle sue gambe. Ha un vestito bianco e una coperta rosa, a fiori gialli.

Sento un moto di commozione e un po’ ho gli occhi lucidi, come è possibile che questa gente venga completamente lasciata a se stessa?

“Ritaj ha un linfoblastoma di tipo acuto, che necessita di terapie per almeno 2 anni e anche molto care, dovremmo portarla in Italia per poterla curare”.

Ha bisogno di quattro iniezioni al mese e ogni puntura costa 150 dollari, il flacone lo fanno venire clandestinamente dalla Siria, perché gli costa di meno.

Mi accorgo di avere salvato il nome di questo papà stanco e indurito dalla vita con un gesto spontaneo delle dita, Abu Ritaj Tripoli, ora si trova dentro la mia rubrica telefonica, e sono caduti tutti i muri e le difese che avevo provato ad ereggere neanche dieci minuti fa. Ora ha un nome e un volto, una storia, sarà più difficile espellerlo dalla mia serata.

Se nessuno interverrà, continuando a perpetuare questa catena di indifferenza, questa bambina rischierà molto dal punto di vista della sua salute e prospettiva di vita, e tutto potrebbe essere dipeso da quel semplice gesto di non mettere il lucchetto a quella richiesta, a quel numero anonimo su WhatsApp. 

Eppure… chi sono io? Chi siamo noi, per avere un potere così grande sulla vita delle persone?

Non siamo niente e allo stesso modo siamo tutto, siamo polvere e ponte, strada e fossato. Troppe responsabilità, ma se arrivano a noi è proprio perché tanti gli hanno già chiuso le porte in faccia. Lasciandoli soli, al buio, chissà dove, in un villaggio sperduto nel nord Libano, in Akkar.

Scrivo a Paola e gli passo i loro contatti, se riusciranno li andranno a trovare per comprendere meglio la loro situazione, anche se, chissà, troppe storie così abbiamo visto finire male.

Il rischio che la stanchezza ci indebolisca è enormemente alto, volevo bloccarla quella chiamata, con tutto il cuore e non sentire mai più quelle parole di tristezza e sconforto, e ci sono stato dannatamente vicino, non fosse stato per un soffio, uno scrupolo, una piccola sensazione di calore.

Ale