Nulla di quello che ci eravamo immaginati

Rabbia, voglia di tirare un pugno a un muro.
E soprattutto chissà cosa pensa U. davanti a quella sagoma scura a puntini da cui esce la voce del marito. Dopo tutto quello che hanno passato poi...
Entrambi i genitori sono originari di Manbij, città nel nord della Siria, ma si sono conosciuti e sposati a Damasco dove lui lavorava come decoratore.
Ci fa vedere delle foto: sembrano antiche opere archeologiche per quanto son belle.
Scoppiata la guerra sono tornati dai parenti nel nord, pensando fosse più sicuro che nella capitale.
Si sbagliavano, non esiste un posto sicuro in Siria.
Nel 2016 la città è conquistata dall'Isis. U. ci racconta che anche la loro figlia, che ora ha 6 anni, era costretta a mettere il velo integrale e i guanti neri.
Scappano di nuovo.
Il marito li aspetta già in Libano dove ha trovato un lavoro a Jounieh, quartiere di Beirut.
Dal 2015 il Libano ha chiuso i confini quindi U. passa dalle montagne.

Nei suoi racconti si sente la paura.
12 ore al buio sopra un burrone con due bambini piccoli in braccio e 3 al seguito.
Ora vivono in Libano in una casa senza finestre e senza porte.
Il marito continua ad andare ogni settimana a Jounieh in cerca di lavori a chiamata, che spesso non arrivano.
È tutto così precario, scivoloso.
Gli chiedo se non ha paura di essere arrestato, rischia tanto.
"Non mi interessa, non ho altra scelta che questa".
Ripetono in continuazione che torneranno in Siria appena i bambini finiranno l'anno scolastico. Nella pancia del leone.
Un giorno arriva la chiamata.
Lo hanno messo in prigione, un mese e 100 dollari di multa.
Accusa: documenti non validi.
Lo andiamo a trovare con la moglie.
Sulla strada lei sembra felice come una sposa.
Vuole fermarsi a comprare 4 polli, da mangiare tutti insieme durante la visita, i coniugi e noi due volontari.
Gli porta anche vestiti puliti e sigarette.
Quando non può fumare il narghilè fuma le sigarette... ce lo dice come fosse il loro segreto più intimo.
La porta della prigione però non si apre.
Chiedo perché, domanda universalmente legittima.
Ma per il carceriere non esistono perché.
Esiste il suo crudele e cinico senso di potere.
Non lo vediamo.
È un'ombra sfumata.
Ho la sensazione di parlare con lui da una distanza in cui le voci finiscono prima di compiere il loro scopo.
La moglie mette una mano sulla porta blindata.
Cerca un qualsiasi contatto, congelato dal freddo del ferro.
Non parla tanto.
Guarda.
Dice che l'avvocato sta lavorando, che noi volontari stiamo contattando delle Associazioni.
E lui a sua volta la rassicura sulla sua salute, le dice che lo trattano bene.
Dalla cella esce un tanfo che ci dice ciò che A. non vuole dire alla moglie.
Racconta di 15 corpi stipati in due stanze di quattro metri quadri.
Dormono per terra, su dei materassi schiacciati più della loro dignità.
Nel rituale della cattura, dopo essere fermati, si viene sistematicamente umiliati.
Portati ai servizi segreti militari, spogliati nudi, rivestiti, colpiti e insultati come animali.
Come animali vengono poi ammassati.
Una rabbia immotivata riservata nei tempi e posti più scuri della storia a chi viene privato dei propri diritti basilari.
Questi ultimi ci dicono di essere sempre di più.
Sempre più persone vengono fermate e arrestate, a gruppi di venti o trenta al giorno.
Dei 15 in cella, 13 sono siriani con documenti scaduti.
Si ha la sensazione di essere dentro una pentola a pressione.

Non succede nulla di quello che ci eravamo immaginati.
Non vediamo A., non dividiamo il pollo, non ci raggiungiamo.
Sul service al ritorno U. piange.
Io sono stupito della forza che A. ci ha mostrato da dietro la blindata.
Di chi sa che arrendersi significa far il loro gioco, farli vincere.
Invece lui si preoccupa dei suoi compagni di cella, dei suoi figli, e di noi volontari-amici-figli a nostra volta.
Dimostra amore invece che rabbia.
Dice che vorrebbe uscire prima che parta P. , per salutarla.
Secondo me ha vinto lui.
E io finché ci saranno persone come lui ho speranza.

M.