Qui i “probabilmente” non servono a niente

Io, Paola, Inès e Valerio siamo andati a Bebnine ad incontrare una famiglia alla quale da qualche giorno è morto un bimbo.
Questa era una delle famiglie che un amico siriano, la settimana prima, ci aveva chiesto di incontrare, per capire se avevano bisogno di qualcosa o anche solo per conoscerle.
L’avevamo scritta nella lista delle visite da fare, con il pensiero che con il tempo le avremmo fatte tutte ritagliando dello spazio tra le mille cose da fare e la frenesia di certe giornate al campo.
Entriamo in casa, il clima è pesante.
La mamma si asciuga gli occhi continuamente, è molto bella, ha le lentiggini e il viso giovane.
Il padre è inginocchiato sul pavimento e guarda fisso per terra.
Il bimbo aveva sette mesi ed è morto all’ospedale di Tripoli.
La mamma ci racconta che da giorni aveva vomito e diarrea, loro non avevano i soldi per fare nulla.

Dopo un paio di giorni che non mangiava e continuava a stare male, si sono fatti prestare dei soldi per pagare un taxi che li accompagnasse in ospedale.
Il primo ospedale, il Kheyr, non ha ammesso il bambino: la famiglia non aveva i soldi per pagare l’ammissione al ricovero, sapevano che probabilmente non li avrebbero trovati.
Anche il secondo ospedale in cui sono andati, subito dopo, non lo ammette. “Lo vedevamo morire e io non potevo fare nulla” ha detto piano la mamma.
All'ospedale di Tripoli fanno entrare il bambino dopo ore di attesa. Il padre ci racconta che è stato ore in braccio a lui a vomitare e piangere, mentre aspettava che arrivasse qualcuno nell’ufficio dell’ONU in ospedale che non si sa perché era chiuso.
Poi lo hanno finalmente ammesso e il bimbo ha passato la notte in ospedale e il mattino dopo è morto.
Ci dicono che in ospedale non hanno voluto curarlo perché loro non avrebbero avuto i soldi per pagare, io non voglio crederci.
O. è morto per una diarrea, il suo corpo era così piccolo che si è disidratato in fretta.
La mamma ci dice che ci aspettava da tanto e non lo dice in tono di accusa, ma una parte di me pensa che forse dovrebbe.
Probabilmente se fossimo andati prima in visita da loro avremmo potuto fare qualcosa, giusto la settimana prima c’erano medici italiani con noi.
Probabilmente se avessimo saputo quanto era importante non avremmo lasciato indietro quell’impegno, tra le mille cose da fare.
Probabilmente se li avessimo accompagnati noi in ospedale lo avrebbero ammesso subito e probabilmente bastava una cavolo di flebo e O. sarebbe vivo e non ci sarebbe quel senso di male denso nell’aria e potremmo dire sì, questa storia, in mezzo a tutto questo schifo, è finita bene e guardarlo mentre gioca e non nelle foto del telefono della madre, che quando le mette sullo sfondo la sorellina le vede e piange.
Solo che qui i “probabilmente” non servono a niente, fanno male e basta, e si aggiungono al peso che già c’è.
Anche perché poi si rischia di cadere nel cerchio dei probabilmente, e si inizia a dire che probabilmente se ci fosse un sistema giusto questo non sarebbe successo, o un medico attento, una politica sana che si prende cura delle persone, una rete sociale accogliente che si mette in ascolto, poi una politica internazionale efficace che riconosce i Diritti Umani, poi un’opinione pubblica che davvero si interessa dell’altro, ovunque sia e qualsiasi cosa stia facendo.
E non si finisce più.
Poi se metto in mezzo troppi probabilmente va a finire che mi perdo e mi dimentico che il mondo non è come lo spero.
E qui non c’è tempo per i probabilmente, qui bisogna esserci e basta.