Pagine di diario

Da qualche giorno al campo sono finiti i festeggiamenti per l’Aid Kabir, una festa che per i musulmani è molto importante. Le famiglie del campo, sopratutto i bimbi e le bimbe, l’hanno aspettata con ansia, parlando di vestiti nuovi da prendere per l’occasione, dei dolcini che avrebbero mangiato, delle grandi cene insieme.
La sera prima eravamo fuori con la chitarra a cantare “Bukra fii l’Aìd”, domani c’è la festa.
Poi la mattina del primo giorno di Aìd ci siamo svegliati con il chiasso, tutti erano nel cortile del campo, contenti del vestito nuovo, o perlomeno chi ha potuto permetterselo, e delle caramelle. Erano tutti così sereni, così allegri. L’aria di festa per tre giorni ci ha dato la sensazione che un poco di normalità potesse esserci pure qui, in un campo di tende in cui ogni due giorni manca l’acqua e i bambini giocano lanciando pietre, e che almeno il diritto a festeggiare fosse concesso.

E mentre si ballava il dapke, con le casse dei giovani e tra le urla dei piccoli, per un pomeriggio si lasciava fuori la tensione degli arresti e dei rimpatri forzati, la paura per i continui raid dell’esercito nei campi, il ricordo della mattina in cui i soldati ci hanno svegliato per controllare le tende e poi sono andati in altri campi a distruggere i muri e arrestare gli uomini.
Stare qui significa condividere i momenti di tristezza e i momenti di festa, la fatica ma anche la leggerezza.
Noi ci siamo stati in questi momenti di comunità anche abbiamo scelto di esserci, di stare insieme. In visita dalle famiglie, a mangiare dolcetti e ascoltare chi, con tristezza, ci diceva che non c’è festa davvero da dopo la guerra.
Una sera siamo stati da Umm Mohammed, appena arrivati le abbiamo fatto gli auguri per la festa, ma come fa ad esserci festa, ha detto, se non si è a casa propria, con la propria famiglia?
Un figlio in Siria, uno in Italia, lei non ha ancora conosciuto i nipoti nati da quando si sono dovuti dividere. La guerra è arrivata fin dentro casa loro, è riuscita a togliergli anche la famiglia, la semplice gioia dello stare insieme.
“L’unica cosa bella di questa festa” dice ad un certo punto, mentre siamo insieme a bere tè e giocare con i bimbi “è che ci siete voi volontari a festeggiare con noi”.
A volte mi chiedo se il semplice stare sia abbastanza. Lo so che è prezioso, ma di fronte a tanto male certe volte vorrei sapere se e cosa si può fare in più.
Però adesso, con Um Mohammed, sento che esserci è importante, e mi stupisce quanto sia forte.

17 Agosto 2019

Siamo tornati poco fa da una visita a casa di Ammuri. Abbiamo cucinato e cenato insieme. Manar ci ha fatto vedere come si cucina il cupsy. Era molto concentrata e ci spiegava passo passo gli ingredienti, le dosi, il tempo di attesa, un po’ in arabo un po’ a gesti, facendoci odorare e assaggiare.
Dopo cena poi ci siamo messi sul tappeto a bere mate e chiacchierare. Ammuri ha iniziato a raccontarci qualcosa della loro storia. Loro sono arrivati in Libano l’anno scorso, dopo che il regime ha iniziato a bombardare Hama, dove c’era casa loro, prima di spostarsi verso Idlib. Prima è arrivato lui, è scappato sapendo che lo avrebbero arruolato se fosse rimasto, e lui non ne poteva più di violenza. Poi qualche mese dopo lei e suoi bambini lo hanno raggiunto a Beirut, si è soffermato a raccontare il momento in cui ha visto il figlio grande corrergli incontro, dopo 3 mesi che non lo vedeva, e aveva le lacrime agli occhi.
Ha raccontato di quando i bombardamenti sono iniziati, della volta in cui la moglie e i due bimbi li ha dovuti recuperare dalle macerie, quando pensava che erano morti e si era messo a pregare e scavare.
Poi di quando lui e i suoi fratelli, dopo le bombe, andavano a raccogliere i corpi per strada e li portavano in moschea. Hai paura le prime volte, diceva, poi alla morte e ai cadaveri ti ci abitui.
Poi, ancora prima, di quando nel 2012 era stato arrestato perché si era affacciato per strada a Homs a vedere cosa stesse succedendo, durante una manifestazione. Racconta dei 45 giorni in prigione, solo in una stanza che, ci fa vedere, era piccola come il bagno della casa, e non c’era luce, al mattino e alla sera veniva un soldato e li torturava, a volte più di uno. Continuava a ripetere quarantacinque, quarantacinque giorni, e ogni giorno venivano a picchiare.
Poi un giorno lui ed altri prigionieri sono stati liberarli, al mattino un soldato è arrivato ad annunciarglielo e mentre li faceva uscire dalla porta della prigione, dall’alto hanno iniziato a sparargli addosso. Qualcuno è stato preso in testa, qualcuno dritto al cuore, molti sono morti. Lui, grazie a Dio dice, è stato soltanto colpito a un fianco ed è ancora qui.
Mentre parla gesticola, indica i figli e la moglie mentre li nomina nella storia, loro sono zitti e ascoltano, Manar annuisce con la testa ma non parla, ha gli occhi seri.
Descrive le strade, le misure delle cose, dice i nomi delle città e delle persone, e sembra tutto così reale, tutto così vicino. Siamo in una casa abbandonata a bere mate e fumare narghilè, fuori il muezzin recita la preghiera della sera, eppure la guerra la sento così vicina, quasi potesse essere subito fuori dalla porta.
Mentre parla, Ammuri ci mostra i segni della sua storia che si porta addosso: i segni dei manganelli della prigione, sul braccio destro, poi il proiettile che lo ha preso sul fianco sinistro mentre stava scappando, poi le schegge, una sulla testa, una sul braccio sinistro. Ci fa toccare le ferite, ce le mostra, descrive il dolore che ha provato, quanto sangue ha perso, dal cellulare ci fa vedere delle foto.
Io la guerra non la conosco, sono nella cerchia dei privilegiati che hanno la fortuna di essere nati lontani. Non ho mai visto una bomba scoppiare da vicino né morti sotto le macerie, non so cosa voglia dire avere costantemente terrore, non so cosa significhi dover scappare.
Eppure in questi mesi qui ho l’impressione che la guerra in qualche modo sia entrata nella mia vita, mi sembra che in qualche modo mi riguardi.
Vivere qui, entrare in relazione con le tante vittime che la guerra in Siria continua a generare, mi avvicina così tanto a un mondo che prima per me non esisteva.
E adesso che Ammuri ci mostra le ferite che si porta addosso e le persone che ci sono amiche ci raccontano di cosa succede dall’altro lato del confine, mi rendo conto di quanto invece sia tutto vicino e reale.