Provando a chiudere gli occhi

Penso alla mia ultima notte al campo.
Me ne sto sdraiato nell’oscurità della tenda a fissarne il soffitto, sperando che la stanchezza della giornata vinca la mia insonnia.
Il silenzio che mi circonda è rotto da qualche rumore indistinto tutt’intorno e dall’abbaiare dei cani in lontananza.
Vorrei dormire ma non ci riesco.
Quando chiudo gli occhi un lungo corteo di immagini si accalca nella mia testa riconsegnandomi frammenti di quella che è stata la mia esperienza in questo luogo.
Mi vedo aspettare al caffè della stazione dei Connexion in attesa che qualcuno del team mi venisse a prendere, poi seduto nell’angolo di una tenda durante la mia prima visita a una delle tante famiglie siriane che vivono nella zona.

Penso alla luce negli occhi della donna che mi parla della sua vecchia casa, delle giornate passate con le sua amiche e alla premura con cui cercava di rendere reali le sue parole cercando video e foto di un luogo che non esiste più.
Mi porge lo schermo del suo cellulare e davanti a me si apre una strada popolata di luci e persone e in cui il traffico scorre lentamente, mentre la camera si sofferma sui dettagli delle persone sedute ai tavoli di qualche bar a fumare narghilè e bere forse del chai o del caffè.
Ma quel mondo di ieri si dissolve immediatamente non appena la donna estrae da una piccole borsetta una pietra, un reperto di un qualche edificio distrutto da qualche parte nella sua città natale.
Quel frammento di mondo è come una reliquia, un’eco di passato che riconsegna i ricordi della donna all’evento della guerra, della morte, dell’esilio.
Scoppia in lacrime.
Raccoglie il volto tra le mani e si abbandona al veleno del dolore.
Ancora, penso alle grida dei bambini durante il giorno, alla noncuranza con cui corrono a piedi nudi sulle pietre di cui è ricoperto il terreno del campo.
Li vedo scontrarsi, azzuffarsi, sorridere, emozionarsi.
Penso che sono soli, tremendamente sperduti in un paesaggio desolante.
Riapro gli occhi e decido di uscire dalla tenda per cercare di calmare la ressa nella mia testa.
Fuori l’aria è umida e non c’è vento.
Il faretto che illumina le tende di notte mi impedisce di vedere chiaramente le stelle che gravitano anche sopra questa parte di mondo.
Penso che questo è probabilmente l’unico momento della giornata in cui posso essere davvero solo.
Improvvisamente mi sento stanco.
Al mattino un uomo era venuto in tenda a chiedere se avessimo novità sull’operazione agli occhi di cui ha bisogno la moglie per non perdere la vista.
Vive al campo con la sua famiglia e da quando sono qui non l’ho mai visto in questo stato.
Ha gli occhi scavati da un paura vischiosa: la frustrazione per quello che sta succedendo a sua moglie si è mescolato alla consapevolezza di non avere una possibilità di lasciare il Libano, e insieme hanno costruito forse una sorta di prigione che lentamente lo consuma.
Mi guardo intorno e conto le tende vuote, abbandonate da coloro che hanno deciso di vivere altrove piuttosto che sopportare altre umiliazioni da parte del proprietario della terra.
Mi vado a stendere di nuovo, guardando l’orologio mi rendo conto che dovrei proprio dormire per cercare di recuperare energie per la giornata di domani.
Il corteo marcia ancora davanti a me, del resto sono io ad animarlo, a metterlo in moto a interromperlo per cercare di recuperare un volto, una parola, una sensazione.
Un bambino è disteso su un materasso in un garage.
Intorno a lui c’è la sua famiglia che con gesti sinceri ci accoglie invitandoci a metterci comodi.
La testa del bambino si è dilatata a causa di un accumulo di acqua che ha formato due sacche violacee per via delle vene rigonfie.
Respira con fatica tanto che sembra che l’aria gli graffi la gola ogni volta che espira.
Ha gli occhi sgranati e il colorito pallido.
Suo fratello si china su di lui per baciarlo prima di correre fuori a giocare.
Il tempo scorre attraverso la stanza e si addensa sul fondo dei nostri occhi, i miei e quelli dei miei compagni.
Non parlo più.
Non penso più.
Il silenzio della notte ha divorato il ricordo.
Il bambino è morto quello stesso giorno, ma noi lo abbiamo scoperto solo una settimana dopo.
Siamo ritornati in quel garage: l'angolo della stanza è vuoto.
La famiglia si riunisce poco dopo il nostro arrivo e insieme consumiamo un pasto frugale.
Andiamo via.
Sto andando via.
Sono di nuovo sdraiato e penso a quanto sia necessario amare la vita per essere davvero liberi.
Mi ripeto che molti dei siriani che ho incontrato in Libano vivono ogni giorno il dolore e la paura dell'emarginato, del fuori posto, eppure praticano la libertà attraverso il prendersi cura di sé e dei propri cari.
Anche se a volte il costo è mostruoso e la lotta è impari.
L'aria è fresca, il vento mi trascina lontano.