Riscoprire la verità

Sono tornata dal Libano due settimane fa.
Il giorno del viaggio verso l’Italia ho salutato Tel Abbas velocemente, tra la fretta della partenza e il silenzio delle mattinate del Ramadan, con nessuno in giro e l’aria ferma.
L’ho salutato con la stanchezza dei tre mesi e la nostalgia della quotidianità che stavo lasciando e che sapevo mi sarebbe mancata.
Ho bevuto una tisana con Umm Khoder, la yansun, la mia preferita, e nel momento in cui ero seduta tra lei, suo marito e i bimbi, ho sentito forte la relazione che nei tre mesi è nata, nonostante il mio arabo e l’imbarazzo.
Sono in Italia da due settimane e mi sembra di non sapere nulla.
In due settimane ho incontrato amici, famiglia, vicini vari, e da un lato è stato tenero tornare.

Molti mi chiedono come è andata, si aspettano racconti interessanti, forti, emozionanti, e invece io non so cosa dire.
Non so fare un resoconto di questi mesi, non riesco a ricordare cosa è stato, e i momenti belli e di famiglia che ho vissuto nelle tende e nei garage umidi nel campo, me li ricordo molto con il cuore, ma la testa proprio non connette.
Provo a raccontare: parlo di esercito, di check-point, di torture nelle carceri e di gente che ci ha lasciato la testa e la dignità.
Parlo di guerra, di violenza, di mancanza di prospettive, dell’impossibilità per molti di poter sperare in qualcosa di diverso o anche solo di sognarlo.
Lo dico e mentre parlo mi sembra assurdo quello che dico, come se fosse qualcosa di inesistente, come se stessi ripetendo cose dolorose ma che so che non appartengono a questi posti, come se non fosse reale.
Come se fossero cose che magari sì, se ne sente parlare, ma forse non ci sono o forse sono io che esagero.
Solo che io l’ho visto.
Io l’ho sentito.
E non posso permettermi che diventi irreale per me, perché riguarda persone con cui mi sono seduta a bere tè o matè e lì, per terra, seduti vicini, ho imparato a sentirli fratelli e sorelle.
Riguarda persone che mi sono entrate nel cuore, persone che esistono, che ci sono, che nel silenzio del mondo sono schiacciati da pesi e violenza disumani.
E non voglio che la loro storia, la loro sofferenza così ingiusta, già indifferente per molti, smetta di essere vera anche per me.
Riprendo la vita normale, l’università, l’attivismo locale, e già sento che niente di questo ha senso se non sono capace di legare la mia vita a quella delle persone che incontro, se io, che ho avuto la possibilità preziosa di vedere certe cose e conoscerle, non me ne faccio carico.
Così mi viene la voglia di tornare a Tel Abbas, nelle tende strette ma aperte a tutti, a riscoprire la verità degli incontri che si fanno, a ricordarmi della guerra e della violenza e del fatto che forse l’ingiustizia più grande è che noi, da qui, possiamo permetterci di non riconoscerla.