Poi all’improvviso qualcosa è successo

Dal 17 di ottobre le strade del Libano si sono infuocate: di rabbia, di gente, di suoni e di colori.
L’enorme e devastante incendio che si era diffuso pochi giorni prima in tutto il Paese ed il modo malsano con cui era stato gestito, aveva caricato la gente di tensione e di frustrazione, sentimenti che evidentemente covavano da tempo.
Le condizioni generali del Paese infatti sono critiche praticamente dalla fine della guerra civile, tanto da far sembrare normale, anche a noi che viviamo qui, che la corrente pubblica manchi per metà della giornata, che l’acqua non sia potabile, che tutto sia così tremendamente inquinato e che per qualsiasi cosa ci sia bisogno dell’intraducibile “wasta”, che possiamo definire in italiano come “raccomandazione”.
La classe politica fino a questo periodo ha sempre e solo dato una risposta: la colpa di tutto è dei siriani.
I profughi sono stati accusati addirittura dell’incendio sopracitato.

L’hate speach è sempre stato all’ordine del giorno, scatenando fortissime ondate di razzismo e di violenza verso i profughi.
“Se io sto male, sarà sicuramente colpa di chi sta peggio”, è il classico pensiero tanto diffuso anche in Italia.
Poi all’improvviso qualcosa è successo, la gente è scesa in strada, le becere giustificazioni della classe politica non sono bastate più a nessuno.
E’ aria totalmente nuova, è rivoluzione, è incertezza e voglia di cambiamento.
Nessuno se lo aspettava, neppure tra i più attivi della società civile, eppure è successo, ed ha aperto il vaso di pandora che tutti provavano a tenere sigillato, da ogni fazione politica.
Una voce sola canta “Il popolo vuole la caduta del sistema”, da nord a sud del Paese.
Cristiani, sunniti, sciiti, drusi, tutte le comunità religiose sono insieme nelle piazze.
Si canta anche la solidarietà con la rivoluzione siriana e con tutte le primavere arabe, soprattutto nei primi giorni di proteste.
Gibran Bassil, Ministro degli Affari Esteri e dell’immigrazione, politicamente molto simile al nostrano Matteo Salvini, sia per i modi di abusare dei social che, soprattutto, per la retorica dell’odio che utilizza ed alimenta, è diventato il primo target delle proteste.
“Pane, libertà, giustizia sociale”, è il coro che urla una Beirut che non è mai stata così libera e bella come mercoledì 30 ottobre, dopo essersi rapidamente ripresa dai vili attacchi sferrati dai sostenitori di Hezbollah ed Amal, che hanno picchiato i manifestanti e distrutto tende e bancarelle installate in piazza dei martiri.
Questa rivoluzione fa sperare, ma spaventa allo stesso tempo.
Noi siamo abituati a vedere gli eventi nel Paese con gli occhi dei profughi siriani, i quali sono molto impauriti ed intimoriti, perché la loro rivoluzione è finita in guerra, con il regime che ha aperto il fuoco sulla folla già dai primissimi tempi della rivolta.
La frase che sentiamo ripetere più spesso è “Questa volta dove dovremmo andare?”, che chiaramente si riferisce alla paura per lo scoppio di una nuova guerra anche qui in Libano.
Gli attivisti siriani invece sono speranzosi e dalla prima ora sono in piazza al fianco dei libanesi, al fianco di coloro che li hanno perseguitati, dando una enorme lezione di solidarietà.
Sono infatti consapevoli che il sistema che opprime i libanesi è lo stesso che opprime anche loro e sperano davvero in un cambiamento che porti del bene ad entrambi.
Vedono anche le differenze tra questa rivoluzione e la loro, che è stata da subito repressa nel sangue, mentre qui gli episodi di violenza sono stati limitati e circoscritti e l’esercito protegge i manifestanti.
I servizi di sicurezza ovviamente, però, non hanno aderito agli scioperi ed iniziano ad arrivare le prime pressioni a chi è sceso in piazza, siriani in primis, data la loro condizione di ospiti molto poco desiderati.
L’argomento profughi, però, non sembra interessare alla maggior parte dei manifestanti, con l’eccezione di alcuni gruppi di solidali presenti soprattutto a Beirut.
Eppure è proprio in questo momento di cambiamento ed incertezza che i siriani e le siriane hanno bisogno di tutto il sostegno possibile: pur essendo la rivoluzione libanese assolutamente giusta e anch’essa da sostenere, i profughi sono la parte più vulnerabile del Paese, nonché coloro che rischiano di subire prima di tutti le conseguenze di qualsiasi evento politico.
Potrebbe essere che in questo momento le persecuzioni nei loro confronti, che durante l’estate erano esplose in violazioni serissime come le deportazioni in Siria, diminuiscano di intensità oppure che, a causa della scarsa attenzione, aumentino passando inosservate.
Quello che sappiamo è che tali crimini stanno andando avanti, mentre è troppo presto per tirare conclusioni sui cambiamenti di intensità o modalità con cui questi avvengono.
Anche i più speranzosi degli attivisti libanesi in cuor loro hanno paura per il possibile evolversi degli eventi, il futuro è veramente un’incognita.
Ma la sensazione di libertà che si respira nelle piazze è inebriante, è la sensazione di essere davvero nel cuore di una rivoluzione.
Ridicoli complotti e letture degli eventi fioccano da ogni lato e da ogni esperto, ma intervenire dall’esterno pretendendo di togliere a migliaia di ragazze e ragazzi il diritto di ribellarsi, solo perché nati in medio oriente e quindi per definizione vittime di influenze di potenze straniere, non è forse la peggiore delle interferenze?
Noi volontarie e volontari di Operazione Colomba siamo qui al nostro posto come sempre, nella nostra tendina di legno e cartone, e ci prepariamo ad affrontare l’inverno e la rivoluzione.
Al fianco degli ultimi nei campi profughi, al fianco degli attivisti e attiviste nei loro innumerevoli guai con i servizi di sicurezza, e quando possiamo anche nelle piazze insieme a loro.
Quello che succederà lo staremo a vedere, insieme a siriani e libanesi, intanto approfittiamo di questo clima di pura bellezza, sperando che la violenza e la repressione non avvelenino i corpi, i cuori e le piazze della rivoluzione.

P.