Dopo 7 anni di disumanità

Abbiamo visto un uomo chinarsi su se stesso, arrotolato sul suo stesso dolore, su ciò che si è dovuto portare via insieme al suo corpo e al suo spirito dalla Siria e dai 7 anni in carcere che per il solo culto di dea Violenza e dio Potere ha dovuto scontare.
È qui in Libano da appena una settimana, fuori da una cella “di sicurezza” da circa 20 giorni.
La suocera dice che un essere umano così dolce lei non l’ha mai conosciuto, lui le dà un bacio sulla testa, nascondendo poi subito lo sguardo.
All’inizio parla a malapena, ma risponde ai nostri sorrisi con un bel sorriso, nonostante noi siamo degli sconosciuti e che gli manchi pure qualche dente.

Parliamo con la moglie Sarah del Libano, di come sia composta la loro famiglia, del suo lavoro e di quello delle sorelle, dei figli e dei mariti, dell’UNHCR per cui fanno le volontarie e della scuola.
Parliamo di Qusayr, e Mustafa ci dice qualcosa in più, ci dice che faceva jaban e leban, i formaggi e lo yogurt, con il latte preso da chi aveva le mucche.
Poi ci dicono che al Libano si deve ancora abituare, che in carcere gli hanno fatto di tutto e che da casa ancora non è uscito.
Tira fuori molti fogli e noi proviamo a leggerli, a capire il suo percorso tra tribunali e carceri seguendo le date e i nomi riportati.
Un attimo dopo si fa prendere da una specie di mania, la suocera gli prende il braccio, lui lo scopre e ci fa vedere la cicatrice di quando lo hanno ustionato tenendogli fermo il polso sul fuoco.
I suoi occhi prima fissano un punto, poi roteano lentamente, si chiude di nuovo su se stesso come a proteggere la testa dai colpi che ormai possono arrivare solo da se stesso.
La suocera e la cognata gli vanno sopra, lo accarezzano e gli massaggiano i lobi delle orecchie, la moglie accanto a me non sa contenersi e inizia un pianto vicino a un lamento, mi dice: “ecco ecco, guardalo, così fa appena pensa al carcere, non so cosa fare”.
In carcere aveva questi attacchi ogni 20 giorni, da quando è uscito ogni 5 giorni, ma adesso che è con sua moglie e con suo figlio di 7 anni e mezzo, quotidianamente ha un attacco simile al precedente.
L’ambiente in cui si è ritrovato Mustafa a vivere ora, dopo tutta questa disumanità, è caldo, pulito e pieno di amore accogliente per lui.
Il suono di fondo è quello di piccoli cuginetti che ridono e giocano tra di loro.
È un luogo in cui la profonda umanità di Mustafa può risvegliarsi, avendo lo spazio per scoprire il tappo che l’aveva chiusa, nascosta per proteggersi.
Un essere umano che fa di nuovo capolino nella propria vita, il suo sguardo mi dice questo, ma nel non detto rivela molto altro.
Sono felice che ce l’hai fatta, Mustafa, che sei sopravvissuto a tutto questo, che sei qui davanti a me ad accennare sorrisi, che quando ce ne andiamo ci accompagni fino alla porta e ci ringrazi tanto, tanto... metto la mano sulla mia testa e tu sulla tua, per dirci che ci teniamo lì sopra, con rispetto, una spanna sopra gli altri.
Avrò il piacere di conoscerti meglio, di vederti schiudere piano piano e iniziare ad amare senza paura tuo figlio che ancora ti vede come lo straniero piombato in casa, o tua moglie che si era abituata a valere per due ed essere forte da sola in ogni circostanza.
“Noi torniamo presto, ma venite anche voi a trovarci, la nostra tenda è vicina, sai? Cinque minuti a piedi e ci sei, così ti fai anche due passi. Noi ti aspettiamo, verrai a trovarci? Abbiamo un buon caffè”.

Cip