Coronavirus e pensieri tra il campo profughi e casa mia

"Non si può soffrire così per far ammettere il proprio figlio neonato in ospedale", pensavo mentre sprofondavo sulla sedia di ferro gelido della sala d'attesa.
Poi una donna inizia a tossire in modo sempre più forte, sembrava potesse soffocare da un momento all'altro: tossiva e piangeva.
Un po' me ne vergogno, ma devo ammettere che per un secondo ho avuto paura che avesse qualcosa di contagioso, prima di avvicinarmi per chiederle cosa avesse.
Minimizzava, aveva uno sguardo molto dolce, eppure la tosse non si fermava e chiaramente non riusciva a parlare.

Scopro poi che Maryam, questo mi pare fosse il suo nome, era una siriana di venticinque anni e già madre di due bambini, che lavorava in casa di una donna libanese.
È questa donna a darmi le informazioni, facendomi capire che forse Maryam sarebbe morta presto, per 2.500 dollari: la cifra per le cure di cui il suo polmone collassato aveva bisogno.
Io non ero lì per lei, non sapevo cosa fare.
L'unica cosa che mi è venuta in mente è stata prendere il numero della donna libanese, mandare una mail alla sezione salute dell'unhcr e sperare che loro trovassero i soldi di cui aveva bisogno.
Intanto il neonato che avevamo accompagnato non era stato ammesso e dopo una giornata iniziata all'alba siamo tornati al campo, avendo ingoiato l'ennesima dose di veleno, ben consapevoli di non essere in grado di aiutare tutti né di salvare le persone, ma di starcela mettendo tutta per rendere un minimo, solo un granello di giustizia.
Oggi sarei dovuta essere di nuovo lì, in quel campo che è stato casa mia per due anni e che non vedo ormai da qualche mese, ma l'emergenza corona virus me lo ha impedito e sono a casa mia in Italia, in quarantena come tutti.
Non ho più avuto notizie di Maryam.
Non so bene quale meccanismo il mio cervello metta in atto per permettermi di non ricordare proprio tutte le storie drammatiche che ho sentito o visto, ma pensavo che anche quella di Maryam fosse finita in qualche parte remota di esso, per permettermi di non scoraggiarmi troppo e per ricordare invece tutte le piccole gioie e conquiste che abbiamo vissuto insieme al dolore, o forse proprio grazie al dolore.
Invece in questi giorni, sentendo parlare dei sintomi del virus che attacca proprio i polmoni, continua a tornarmi in mente il mio incontro con lei, continuo a chiedermi che fine abbia fatto, se sia riuscita a vivere oppure se sia morta.
Morta a venticinque anni per duemilacinquecento dollari.
Probabilmente non lo saprò mai e penso che se questo virus arriverà nei campi profughi sarà una catastrofe.
Il Libano oggi è chiuso militarmente e noi non siamo lì.
Qualcuno dice che questo virus ha messo in evidenza il fatto che siamo tutti uguali, tutti vulnerabili allo stesso modo.
Non è vero che siamo uguali, perché soprattutto nei Paesi dove la sanità è privata le vite dei ricchi vengono salvate, tutte le altre invece non sono degne di considerazione.
In questi giorni resto a casa, come dicono di fare, e penso a chi una casa non ce l'ha mai avuta oppure non ce l'ha più.
Penso a Maryam che forse è morta, forse è una dei milioni di vittime della guerra in Siria, forse è vittima del sistema che mette davanti a tutto il profitto, forse della nostra indifferenza.
Non è vero che siamo tutti uguali, le ingiustizie esistono e pesano come macigni.
Creano le differenze, creano i privilegi.

Che siamo tutti vulnerabili invece è vero, ed io questo lo vedo come un punto di forza.
Siamo vulnerabili davanti alla paura, davanti alla malattia, davanti alla repressione.
La paura ci paralizza, ci blocca.
Ed in questo momento sembra che il mondo si sia fermato.
Noi invece siamo abituati a correre da un posto all'altro, che sia in Libano, in Medio Oriente o in Europa; in aereo, in un service scassato oppure in macchina per ore ed ore, spinti dalla forza potente della disperazione delle persone con cui viviamo.
L'ingiustizia non si ferma, continua a divorare vite, forse più di prima.
Ed è per questo che è tanto faticoso restare nelle nostre calde case.
Siamo vulnerabili, appunto.
Forse è un bene che questa situazione ce lo sbatta così bruscamente in faccia.

Tutti i siriani che conosco mi hanno scritto per chiedermi come stiamo io e la mia famiglia, loro che hanno perso tutto per una guerra che ha fatto più vittime di qualsiasi virus.
Noi non siamo lì con loro fisicamente adesso, ma loro sanno che non è vero che ci siamo fermati e che non potremmo mai farlo, perché l'amore che viene fuori dal vivere insieme è più forte di ogni cosa.

Siamo tutti vulnerabili, ma noi siamo anche abituati a pensare che non c'è niente che mettendoci la vita non si possa cambiare, neanche la guerra.
Lo sappiamo perché lo abbiamo vissuto, perché anche quando tutto era nero ed i problemi si moltiplicavano ogni secondo, alla fine una soluzione è sempre spuntata fuori.
Sarà così anche questa volta, anche ora che non vediamo ancora nessuna luce alla fine del tunnel.
Noi torneremo presto.
P.