Beirut, 5 marzo 2020

In Piazza Martiri della libertà, la piazza più famosa di Beirut, hanno costruito delle tende.
Al centro della piazza dei giovani chiacchierano bevendo tè e fumando narghilé.
Vicino a loro, delle famiglie giocano con i bambini, un ragazzo con il suo mp3 collegato alla cassa diffonde la musica in tutta la piazza.
Attorno ci sono scritte, striscioni, murales.
Il messaggio è semplice e chiaro: il Libano ai libanesi.
«Questa rivoluzione ha come fine la riappropriazione degli spazi» ci racconta un manifestante.
«Beirut è una città così grande e varia eppure non dà molte possibilità di incontro, è composta da tanti quartieri e gruppi sociali che tra loro non comunicano molto. Noi invece sentiamo il bisogno di parlarci e di confrontarci, di riunirci, per questo siamo qui, in uno spazio che crediamo ci appartenga».

Dal 17 ottobre 2019, giorno in cui i libanesi hanno scelto di manifestare nei confronti del governo, moltissime persone hanno montato la loro tenda in questa piazza, e da ormai quattro mesi la vivono.
I manifestanti sono tanti e hanno storie diverse, da studenti a famiglie, provenienti dalle varie regioni del Paese.
Non sentono i confini della religione e della provenienza sociale, sono uniti dalla voglia di portare avanti questa “thaura” (rivoluzione) e di proporsi come costruttori del futuro del loro Paese.

Tra queste tende ce n’è una che è sempre aperta.
L’ha costruita Naziim, padre di famiglia proveniente dal sud del Libano, trasferitosi lì per poter partecipare in prima persona alla rivoluzione.
A qualsiasi ora del giorno lui è presente ed accoglie tanta gente, chiunque abbia voglia di confrontarsi o anche solo fare due chiacchiere.
«I media internazionali hanno ricondotto l’inizio della rivoluzione all’aumento del costo di WhatsApp. Facendo così hanno molto sminuito la situazione che stiamo vivendo in Libano e i reali motivi per cui siamo scesi in strada, a partire dal 17 ottobre», racconta Naziim.
«Noi manifestanti abbiamo delle richieste chiare, e le avanziamo come popolo, senza metterci sotto bandiere di partito o etichette religiose e sociali. Questo perché crediamo che sia arrivato il momento di unirci e di prendere finalmente la parola, insieme».

Il Libano è un Paese in cui convivono 18 orientamenti religiosi diversi, è un Paese da sempre attraversato da divisioni sociali e politiche, divisioni che hanno portato ad una profonda guerra civile meno di 30 anni fa, di cui ancora sono vive le ferite.
A ciò si aggiunge una gestione del Paese, a livello politico, che non risponde ai bisogni essenziali della popolazione.
«I servizi di base non ci sono garantiti» continua Naziim, «il sistema sanitario è privato ed è accessibile solo ad una piccola fascia di popolazione. L’educazione è un bene che non tutti possono permettersi, e anche se le scuole sono gratuite spesso le famiglie non possono sostenere il costo del trasporto e a ciò si aggiunge l’instabilità del sistema scolastico che non garantisce continuità all’insegnamento».

«Viviamo in un Paese che è molto sporco perché il governo ha sospeso la raccolta della spazzatura. Camminando per le strade passiamo di fianco a montagne di rifiuti: a causa di ciò si registrano tantissimi casi di persone malate di cancro. Lo scorso anno ad esempio ci sono stati 6.000 casi solo nella valle della Beqqaa.
Come è possibile che un Paese così piccolo come il nostro non riesca neanche a garantirci i beni più essenziali? Viviamo in uno Stato in cui il potere è nelle mani di pochissime persone che non si preoccupano di tutti gli altri, e la corruzione è dilagante».
Il movimento di protesta è nato in maniera semplice e spontanea, dal 17 ottobre la gente ha iniziato a riunirsi in strada per ballare e stare insieme: «noi vogliamo vedere le persone, ci siamo svegliati e anche se qualcuno ci dice che è vietato protestare noi continuiamo a stare qui. Stiamo qui perché questa non è una protesta politica, è una protesta per la vita.
Siamo qui perché crediamo nelle relazioni e nel dialogo: chiediamo al nostro Paese di non chiudersi come fa da anni, trovandosi in una zona in cui i confini sono tutti serrati, ma di darsi la possibilità di incontrare realtà diverse e di aprirsi. A noi non interessano i partiti o i colori del governo, non ci interessa chi ci sarà domani, quello che vogliamo dire è che se continuiamo così non andremo da nessuna parte e che chi ci rimette sono le fasce deboli. Chiediamo che ci sia un governo capace e preparato nel fare politica, perché è a loro che noi affidiamo la nostra vita e loro hanno in mano i nostri diritti. Siamo qui perché siamo convinti di avere ragione, e siamo tanti, per questo quello che vogliamo è dialogare: da qui la nostra scelta di portare avanti un movimento nonviolento.
La storia ci insegna che la violenza è sempre inefficace e ci dimostra invece quanto forte sia il dialogo».
«Da quando siamo qui siamo stati aggrediti e ci è stato chiesto di non parlare».
In una parete della tenda sono attaccate una serie di fotografie e di oggetti, Naziim ce le mostra: sono immagini della rivoluzione che denunciano i metodi violenti utilizzati per sedare i manifestanti. Sono gas fumogeni, pietre e proiettili che le forze armate che sono intervenute hanno lanciato sulla folla.
«Tanti metodi utilizzati dalla polizia, così come da Hezbollah» spiega Naziim «vanno contro le leggi internazionali: ci hanno attaccati gratuitamente, colpendo anche ragazzini, senza preoccuparsi di cosa stesse succedendo. Abbiamo affisso tutto ciò alla nostra tenda per ripeterci sempre che la violenza non ha senso e cerchiamo di aiutarci in questo. Quando durante una manifestazione notiamo che qualcuno si scalda, cerchiamo di contenerlo e tra di noi creiamo molti momenti di incontro, per ascoltare la rabbia di tutti, soprattutto dei giovani, e dargli dei canali che non siano violenti.
Ci hanno procurato dolore ma ci rendiamo conto che ne vale la pena e che il nostro metodo funziona.
In questo momento 72 persone sono in attesa di processo per aver manifestato e diversi sono i feriti.
Allo stesso tempo il cibo è razionato e non abbiamo con cosa riscaldarci; non si conta più la gente che in questo periodo compie gesti estremi per protesta… sentiamo forte la disperazione del nostro Paese.
Per questo restiamo qui e con i loro metodi violenti possono anche buttarci giù la tenda.
Noi ci spostiamo perché non accettiamo questo tipo di comunicazione, ma poi torneremo».