Una botta di bene

Febbraio 2020

Nel pomeriggio siamo andati a trovare A..
Aspettiamo che l'UNHCR ci dica quale ospedale è disposto a prenderlo in carico, nel frattempo lui sta male.
Questa settimana siamo impazziti a contattare medici e ospedali della zona, alla fine l'hanno preso e poi dimesso il giorno dopo senza averlo nemmeno visitato.
Siamo stati a casa loro il pomeriggio, a bere té caldo e chiacchierare.
Sono belli.
Hanno un modo molto delicato di porsi, sono tanto gentili.
E mi sembrano così puri, questo modo di raccontare la storia della loro vita e quello che passano ora, in maniera ferma e consapevole, ma non carica di odio.

Man mano che i figli tornavano da scuola, si sorridevano tanto; la figlia grande, N., è entrata e ha dato un bacio in fronte al papà.
Si sente che si vogliono bene.
Ci hanno chiesto cosa era successo all'ospedale, vedevano che eravamo arrabbiati ma parlavamo inglese e non capivano bene cosa ci stessimo dicendo con i medici.
Gli ho spiegato che sentivamo l'urgenza che A. venisse operato e ci sentivamo presi in giro, dall'ONU e dai medici, che ci avevano detto che ci avrebbero pensato loro e poi lo hanno dimesso senza fargli nulla.
E che fanno così, chiedono soldi a chi sanno che non sa dove trovarli, e non si preoccupano.
B., il padre, diceva che anche loro sono arrabbiati. Però poi ci ha detto che prova tanta gioia per ciò che abbiamo fatto in ospedale l'altro giorno.
Io mi scusavo perchè speravo di poter fare di più, che mi dispiaceva perchè A. stava male ed era ingiutso che gli venissero negate le cure.
Invece B. diceva "profondamente grazie" per questo, che è stata una botta di bene il fatto di vederci così "impuntati" per loro.
Diceva, se parliamo noi nessuno ci ascolta, se ci arrabbiamo noi si infastidiscono e ci mandano via, invece se andate voi che siete stranieri vi ascoltano.
Ha detto che era contento di questo, che non se lo aspettava.
Mi ricordo come era lui in ospedale, mi camminava al fianco nei corridoi, mentre passavamo da un ufficio ad un altro, sentivo da come mi parlava che era infuocato.
Parlava deciso, e ci faceva notare tutte le ingiustizie che si subiscono in ospedale.
Camminavamo per i corridoi a passo svelto, e lui a bassa voce parlava spedito, continuando a dire: è un ospedale questo? È questo il modo in cui si trattano le persone?
Dicevamo che siamo dispiaciuti di non poter fare molto, che A. è ancora lì con il suo dolore.
Ma S., la mamma, ci ha interrotto, e ci ha detto che l'aiuto più bello che diamo è che siamo andati a conoscerli, in casa loro, e che ci facciamo conoscere.