Diario da Beirut - Agosto 2020

In questi giorni, come volontari di Operazione Colomba a Beirut, siamo al fianco di ragazzi e ragazze che, organizzatisi in una rete di solidarietà, portano cibo, medicine e aiuti per la ricostruzione a centinaia di persone in difficoltà e abbandonate a se stesse. Sosteniamoli!

“Questa zona era il fiore della città, il fiore nel cuore di Beirut. E guardate adesso...”.
Ci dice così un signore di Tripoli che non vede moglie e figlia da un anno, da quando è sceso a Beirut per lavorare, vivendo nello stesso posto in cui c’era il cantiere.
Il cantiere era qui davanti, a dove lo abbiamo incontrato, ora lui siede accanto a un negozietto che fa caffè e guarda l’edificio che è ancora in piedi ma ha subito grossi danni, non si sa quando potranno ripartire i lavori.
Siamo a Gemmayzeh, il quartiere dai palazzi antichi e locali notturni, siamo passati sotto la vecchia casa dove ho vissuto qualche anno fa durante il periodo universitario: rimane ancora bellissima, anche se gli infissi sono totalmente saltati, almeno la struttura resta in piedi, così come i balconi.


Lì dietro c’è ciò che resta del Saifi Urban Garden, luogo di innumerevoli pranzi e cene dei volontari grazie all’ambiente accogliente e ai prezzi popolari.
In parte è crollato, in parte è ancora totalmente intatto, con le caratteristiche sedie del locale appese con dei chiodi al balcone che dava sullo spazio principale del locale.
A pochi metri una camera da letto dell’ostello completamente crollata, con il letto e il pavimento che sono scesi di più piani.
Siamo stati in piazza dei Martiri, abbiamo visto quelle strade che da ottobre in poi sono state gremite di libanesi scesi in piazza, adesso strade vuote, con qualche soldato qua e là.
In alcuni punti rimangono i simboli ancora attuali di richieste popolari a cui le istituzioni non hanno saputo dare risposta finora, accanto a camioncini della Croce Rossa e di alcune tende che sono punto di distribuzione di aiuto per gli sfollati, circa 300.000.
Poi finalmente dopo molti mesi abbiamo rivisto Abu Sara, che ci ha voluto portare in macchina prima in downtown, nella parte ricostruita quasi interamente dopo la guerra civile e luogo accessibile solo alla classe ricca del Paese, diventato ora un nuovo deserto di boutique con le serrande sbarrate, e poi a Karantina, il quartiere attaccato al porto.
Abu Sara è vivo per miracolo, se l’esplosione fosse stata 3 minuti prima e non avesse avuto i finestrini dell’auto abbassati sarebbe morto probabilmente, visto che era in macchina nei paraggi ed era appena passato davanti al porto.
Karantina, il quartiere che prende il nome dalla quarantena obbligatoria che i viaggiatori provenienti da lontano dovevano fare una volta approdati al porto di Beirut, oggi è un quartiere multietnico e multiconfessionale. Qui le case sono perlopiù totalmente crollate, altre pericolanti, alcuni abitanti del quartiere stanno radunati in piccoli gruppi intorno alle macerie.
220 morti. 20 dispersi di cui quasi sicuramente non si saprà più nulla.
E poi verso Cola, a conoscere il “fariq al ighasy”, un gruppo informale di ragazze e ragazzi giovanissimi arrivati da tutto il Libano che insieme raccolgono beni di prima necessità e li distribuiscono.
Vengono da Baalbek, Nabatiyeh, Sidone, Tripoli e ovviamente Beirut, alcuni di loro sono persino minorenni.
Sono uno dei volti belli e attivi del Libano.
Sono loro stessi ad andare casa per casa, segnalare i bisogni delle famiglie alle grandi organizzazioni e se dopo alcuni giorni le famiglie non hanno ancora visto nessun sostegno sono pronti a portare scatoloni con beni di prima necessità, a fare da filo di connessione tra chi si è offerto di ospitare sfollati e chi non ha più un luogo agibile in cui vivere.
Nel frattempo altri gruppi vanno a pulire gli spazi ancora ingombri di macerie e vetri o a sistemare le case che sono state colpite in compagnia dei proprietari.
Ci raccontano che alcune organizzazioni danno aiuti solo ai libanesi, e che loro hanno conosciuto una famiglia siriana di 17 persone che dal giorno dell’esplosione dorme sulle macerie della propria abitazione perché non hanno nessuno da cui trovare rifugio né un altro posto dove andare, come se non bastasse aver già perso la propria casa una volta.
Al gruppo invece basta aver conosciuto nei quartieri colpiti dall’esplosione i diretti beneficiari degli aiuti, la nazionalità è indifferente.
Giornata lunga e piena.
Domani speriamo di rivederli all’azione.

Cip