Diario da Beirut 2 – Agosto 2020

Intorpidita:
Beirut sembra avvolta da un grigio torpore, e con lei chi la vive.
I primi giorni facciamo fatica a riconoscere la città, di solito molto frenetica e caotica.
Le strade sono svuotate e piene di vetri per terra, anche in zone molto lontane dall’esplosione.
Le persone si sforzano di sorridere, ma la stanchezza che si trascinano addosso si percepisce.
E ci contagia.
Non facciamo particolari sforzi durante il giorno, ma al rientro in casa la sera sentiamo sempre una stanchezza di cui non capiamo la ragione.
“Andiamo in giro e vediamo i segni della morte, sentiamo il suo odore. Facciamo finta che tutto questo sia normale, ma non lo è”.

Ci dice S. con gli occhi lucidi.
“Noi abbiamo un disperato bisogno che la gente fuori dal Paese sappia quello che stiamo vivendo, quanto è corrotto e ingiusto il nostro Governo”.
I giovani che erano in piazza da mesi pensavano di non avere più niente da perdere, ma questa esplosione è riuscita a smentirli e sorprenderli.
L’apatia e la stanchezza non fanno differenze di nazionalità ed accomunano tutti.
Tutti sembrano disillusi e vorrebbero andare via. I siriani che già da tempo vivono a fatica in questo Paese, i libanesi che continuano ad impoverirsi a causa dell’enorme crisi economica.
A. è stato ferito alla gamba, ci raccontava che durante i bombardamenti alla ghouta di Damasco era preparato, sapeva come e dove posizionarsi in casa quando le bombe sarebbero arrivate.
Ma non qui a Beirut, non in tempo di pace.
Questa esplosione non se l’aspettava nessuno, ha colto tutti impreparati.
Così, quasi tre settimane dopo, la gente è ancora incredula, sotto shock.
Non che non abbiano reagito o risposto, anzi.
La reazione e la solidarietà sono state immediate e di una bellezza emozionante.
Ma sembra che le persone vadano avanti facendosi vivere dagli eventi, con la soffocante sensazione di non avere nessuna capacità di controllo sulle proprie vite.
W. si è speso dal primo istante.
Era in macchina durante l’esplosione, e dopo aver realizzato di essere ancora vivo si è sforzato di capire cosa stesse succedendo.
E’ sceso dall’auto ed ha iniziato a camminare, seguendo il fumo e le case distrutte finché non è arrivato al porto.
Avrà camminato per circa un’ora e da quel momento non fa altro che andare avanti e indietro per la città in base ai bisogni, nella sua auto dal vetro danneggiato in cui tiene una tazza di ceramica che riempie di caffè prima di uscire da casa e durante qualche sosta.
Lui è un omone alto e grosso che in foto non sorride mai, ma ha sempre parole dolci e rassicuranti per tutti.
Ne ha anche adesso, quando alle nostre preoccupazioni risponde “Sto bene habibi, non preoccuparti”.
W. spende ogni grammo della sua energia per questa città e per i suoi abitanti, da quando è scoppiata la rivoluzione e praticamente tornava a casa a malapena per riposare qualche ora.
E’ difficile credere che stia bene, come forse nessuno in questo Paese.
E’ difficile respirare speranza, in questa aria pesante ancora sporca di polvere.
Ma è vitale cercarla e noi proviamo a farlo: nei luoghi d’incontro dei volontari, sotto le macerie dei quartieri distrutti, all’interno dei campi profughi.

Paoli