H. - 4 maggio 2021

Sono grata per i momenti di “grazia”, in cui i veli di pregiudizi, giudizi e incomprensioni sopra le persone vengono sollevati e si mostrano altre parti di loro che erano sconosciute e non contemplate fino a quel momento.
Con lei è successo così.
Il velo è sollevato grazie ad un invito a cena un po’ inaspettato, giudicato da me con malizia per dovere di facciata, e ci ritroviamo qui a riconoscere H., donna che ha sulle spalle 4 figli (una quinta si è sposata già da minorenne) e si è vista portare via il marito dai militari siriani; è rimasta da sola, sfollata tra gli sfollati di Homs.
Il figlio, unico maschio in casa, ci racconta di come a 7 anni è entrato in casa della zia e ha trovato tutti morti.
La sorella, che aveva pochi anni in più, racconta di come ha camminato su corpi e corpi morti da un bombardamento, mentre scappavano dall’ennesimo rifugio che avevano trovato.
Il figlio a pochi metri di distanza da sé ha visto cadere un razzo su una signora incinta che portava un passeggino, vedendola letteralmente esplodere... il figlio in grembo morto per terra subito dopo.

H. ci dice che sono questi i ricordi che perseguitano il figlio e che lo costringono ad assumere farmaci per riuscire a condurre una vita semi-tranquilla.
Lui si occupa delle manutenzioni del campo e fa attività sportive con i bambini, la sorella grande insegna nella scuola del campo qualche ora a settimana.
Hanno cambiato almeno 7 rifugi prima di arrivare in Libano, non ho tenuto il conto durante il racconto ma probabilmente anche di più.
H. mi ha detto più volte in questi due anni che lei in Siria non ci torna e che al campo sta bene.
Ho sempre giudicato questa sua fermezza, abituata a sentire dalle persone qua racconti di forte nostalgia per la propria Patria, a discutere con persone come Sheikh Abdo che da anni si impegnano per un ritorno.
Poi il velo è sollevato, e con l’empatia priva di filtri e giudizi ho ascoltato la storia di H. e della sua famiglia, e quello che abbiamo sentito è probabilmente una pezzo su un milione di ciò che avrebbero potuto raccontarci.
Con tutto questo dolore, e anche se fosse stato molto meno, come potrei giudicare l’affermazione “Mi piace la mia vita al campo profughi?”.
Ogni persona è diversa e reagisce diversamente a ciò che è stato, al dolore e alla perdita, gli strumenti sono diversi e la strada che ha scelto ad esempio Sheikh Abdo è una scalata in salita dopo altrettanto dolore che non tutti riescono a intraprendere.
Sono felice di essere stata in grado questa volta di ascoltarla per come davvero lei sceglie di raccontarsi.

Cip