Arsaal

È il 20 ottobre e siamo in macchina in viaggio verso Arsaal.
Arsaal: 130 mila persone, di cui i tre quarti sono siriani, organizzati in 160 campi profughi informali, cioè non riconosciuti dallo Stato, e per accedere all'area, militarmente protetta, è necessario un permesso.
Al di là del finestrino vediamo il paesaggio cambiare.
Avvicinandoci al confine nord-orientale del Libano, le pianure e gli altipiani alle nostre spalle lasciano spazio a terre ondulate colorate di ocra.
La terra è secca e le creste brulle sullo sfondo sono già in territorio siriano.
Ingraniamo una marcia più corta e mentre ci avviciniamo all'ingresso della città, prepariamo passaporto e permesso personale di accesso alla zona.
Arriviamo al posto di blocco, un militare con un cenno di capo ci fa segno di proseguire.
La strada scollina e davanti a noi si apre, leggermente più in basso il centro abitato di questo grande villaggio.

Bastano pochi minuti in auto per notare come gli edifici in cemento siano in sproporzione rispetto al numero di tende.
Percorrendo le strade polverose, intrecciando le traiettorie di motociclette guidate da uomini con il capo coperto dalla kefia bianca e rossa ed un vestito scuro alle caviglie, nella vastità di questo deserto dorato, raggiungiamo casa di una famiglia di amici di Operazione Colomba.
Il sole è calato e siamo un po' disorientate perché dall'esterno le tende sono tutte uguali.
Fa capolino il papà di famiglia e ci invita a parcheggiare ed entrare.
Sulla porta, con un sorriso pieno di commozione, ci attende la moglie e ci stringe in un abbraccio. Sua sorella e sua mamma sono in Italia, stringendo noi è come se stringesse loro...
Togliamo le scarpe e la giacca, appoggiamo lo zaino.
Un po' infreddolita rimango piacevolmente colpita dal senso di accoglienza che la stanza centrale trasmette.
Le pareti sono rivestite di materiale spugnoso argentato, che riflette il calore emanato dalla stufa a gas attorno alla quale ci sediamo in cerchio, trovando quel calore e quel senso di casa che solo il fuoco sa offrire.
Ci fermiamo per tanto tempo, tra un discorso e l'altro, sgranocchiando semi di girasole accompagnati dal caffè siriano, si fa ora di cena.
È un pasto semplice, siamo quasi una decina attorno alla tovaglia stesa a terra, sulla mensa alcune scodelle di un brodo con ceci, patate e pezzetti di pollo, il tutto accompagnato da un buon riso...
A tavola regna il silenzio, il tempo del parlare viene prima e dopo, durante solo frequenti incitazioni al servirci...
Finito di mangiare riprendiamo le nostre postazioni accovacciati sui divanetti, questa volta la conversazione prosegue avvolti da una nube di fumo e dal ripetitivo ribollire dell'acqua del narghilè...
Parlando con i genitori, ci raccontano che sanno che la loro casa in Siria è stata saccheggiata, bruciata, i loro averi rivenduti e le loro terre occupate… e questa non è solo la loro storia, è quella di tanti.
Intanto rientrano dal lavoro i due figli maggiori, il primo di una ventina di anni, il secondo forse di quattordici.
Lavorano in una bottega vicina la sera, quando c'è elettricità per il funzionamento dei macchinari.
Intanto la loro unica sorella, ci mostra il risultato del suo impegno con il bricolage… stacca da una parete un addobbo che con dignità decora la tenda.
È un bastoncino dal quale scendono dei fiorellini di carta tagliati da lei.
Anche altri due fratelli fanno capolino, uno dei due, di una decina di anni, ci mostra con umiltà e soddisfazione un alberello fatto di legnetti, da lui incollati.
Da un'altra mensola tira giù un piccolo supporto sul quale, con vari materiali, ha costruito una casetta e uno spazio per animali.
Intanto la mamma prende il telefono e ci mette in contatto con sua sorella e sua mamma partite con un Corridoio Umanitario per l'Italia.
Non le vede da tempo, e se la situazione non cambia, non potrà vederle dal vivo per anni, perché chi lascia Siria o Libano come rifugiato non vi può tornare fino a quando non ha la cittadinanza nel Paese che lo accoglie… quante famiglie forzatamente divise!
Ormai l'ora è tarda, quella che fino ad ora è stato un salotto, si prepara a diventare una stanza da letto.
Così ci vengono offerti altri due materassi e delle coperte di una pesantezza che non credevo neanche esistesse.
La stufa si spegne, posso addormentarmi sotto ad un grosso strato di panni, di cui ora, capisco il significato.
È subito mattina, il naso, fuori dalle coperte è ghiacciato.
Mi vesto rapidamente e raggiungo, in una piccola veranda della tenda, Caterina, una delle due ragazze che sono con me e i bimbi.
Il più piccolo, con grande disinvoltura, entra nella gabbia con le galline, da loro da mangiare, qualche bastonata e raccoglie le uova... è un gioco, una responsabilità, uno sfogo "Solo noi possiamo essere torturati?!"
Poco a fianco c'è una struttura di cui non capisco il significato… sembra una parete di sassi grandi e disconnessi alta e larga un metro.
Mi viene spiegato che è opera del papà.
Quando c'è elettricità è una fontana con una piccola cascatella… a lui piace mettersi lì davanti e stare in ascolto dello sciabordare dell'acqua, quel suono lo riporta alla sua Siria.
Ancora il tempo di fare colazione poi con riconoscenza e commozione salutiamo e ripartiamo.
"Allah maakum".
Sì, "il Signore sia con voi, con voi che nel segreto gridate la vostra dignità, con voi che avete fame e sete di giustizia".
"Allah maakum".

G.