14/01/2022

Mentre scriviamo questo aggiornamento dal campo dalla Valle della Bekaa, il Libano sta vivendo un nuovo aumento delle tensioni sociali, a causa dell’oscillazione impazzita del valore del dollaro rispetto alla lira libanese e alla conseguente inflazione galoppante dei prezzi di beni di prima necessità, in particolare pane e carburante.
Il 14 gennaio questa tensione si è manifestata con l’ennesima “Giornata della Rabbia”, nata da uno sciopero generale indetto dai sindacati dei trasportatori, che ha messo in tilt il Paese con blocchi stradali, chiusure delle pompe di benzina e code ai panifici, a volte presidiati da camionette dell’esercito.
Dalla gente che incontriamo, sentiamo che in alcune zone vicino a dove ci troviamo, il pane viene razionato per le famiglie.
Così, le persone scendono in piazza per chiedere al governo di sussidiare il carburante e i beni di prima necessità, per rispondere alla svalutazione galoppante della moneta nazionale, che ha ormai perso il 95% del suo valore in poco più di due anni.
Oggi, riempire la tanica del gasolio costa più del salario minimo mensile, che ormai vale l’equivalente di 20$.
Secondo il World Food Program, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari rispetto allo scorso autunno è del 557%.
Ma come si incarnano questi numeri, che descrivono quantitativamente una crisi economico-finanziaria tra le più gravi al mondo?
Noi volontari di Operazione Colomba ne siamo testimoni attraverso il contatto con le paure e l’insofferenza palpabile della gente.

Che si tratti dell’insegnante che ci siede accanto in bus e che approfitta dei pochi minuti di viaggio insieme per sfogare la frustrazione di chi ha visto il proprio stipendio perdere valore di oltre venti volte; o il negoziante che non sa come dire ai suoi dipendenti che da domani è meglio che restino a casa perché ad andare a lavorare non ci guadagnano più; o l’autista che ci racconta esasperato di non riuscire più a coprire i costi della benzina con il guadagno di una giornata.
Ma ce ne accorgiamo anche dal ritorno costante dei discorsi sull’andarsene via, in Europa, in Canada, negli Stati Uniti, ovunque purché non qui, che ormai sentiamo fare sempre più spesso anche alla gente di qua.
Questa disperazione diffusa offre terreno fertile ai pregiudizi, alle recriminazioni e alle accuse reciproche nei confronti dei rifugiati, soprattutto dei siriani, che a oltre dieci anni dall’inizio dell’emergenza, vivono una condizione di discriminazione e negazione dei Diritti uguale o peggiore di prima.
Nel nostro piccolo, noi proviamo a reagire a questi sfoghi di ansia, incertezza, frustrazione e paura prestando ascolto, attenzione e vicinanza.
E continuiamo a interrogarci su come dare una risposta che possa aiutare a costruire un ponte di pace e di speranza tra le comunità, in questo mare di giornate della “rabbia”.