I sopravvissuti nella moltitudine

Ricordo quando un anno fa ci hanno raccontato che era tornato nel suo Paese, per vedere cos’è che ne restava. In poco meno di un’ora era già stato preso e incarcerato, sotto un interrogatorio fatto più di torture che di domande.
Ne abbiamo parlato con i parenti che non si spiegavano come avesse potuto decidere di mettere piede in Siria, e insieme il primo pensiero comune che ha aleggiato nella stanza senza farsi parola è stato: è perso, non tornerà. Un altro uomo nel buco nero della moltitudine dei dispersi, coloro di cui non si saprà più nulla, “eza mayet aw tayeb”, se sono morti o vivi.
E invece eccolo, davanti a me che mi racconta per filo e per segno tutto ciò che gli è accaduto, a partire dal fatto che lui aveva giurato al padre sul letto di morte che non sarebbe mai tornato in Siria finché non ci sarebbe stata sicurezza per il rientro, ma che con l’inganno lo hanno condotto al di là del confine.
Dopo quel momento ha passato 7 mesi tra botte, torture disumane e umiliazioni disumanizzanti, il primo periodo in innumerevoli corpi della sicurezza di Stato, l’ultimo periodo facendo il servizio militare obbligatorio, dopo che per anni era riuscito ad evitarlo nascondendosi in Libano.

Parla per ore, e non mi accorgo del tempo che passa, solo verso la fine ci guardiamo e gli chiedo “in questo momento ci credi che sei vivo? Che sei sopravvissuto a tutto questo?”.
“No… quando sono arrivato a casa non potevo credere che ero vivo, accanto a mia moglie. Continuo a fare incubi anche ora, il primo periodo ogni notte. Ho accettato di raccontarti queste cose perché mi fido ciecamente del nostro amico in comune, la metà delle cose che tu ora sai non le ho dette nemmeno alla mia famiglia, non voglio far loro male al cuore, e alcune cose non sarò mai in grado di dirle”.
Mi rendo conto che di fronte agli occhi non ho solo un uomo forte e affabile, ma sto guardando un sopravvissuto, che ringrazia Dio mentre ancora non crede di essere vivo, il suo corpo che ancora trema per i brividi nervosi mentre racconta cosa ha passato per mano di milizie e dello Stato.
Dice che in Libano aveva sempre pensato che chi non era scappato dalla Siria fosse fedele al regime, ma in carcere, nelle caserme di addestramento e sul fronte con l’esercito si è reso conto che non è così: in moltissimi avrebbero voluto fare come lui, se solo avessero potuto, se avessero avuto nella sfortuna la fortuna che ha avuto lui. Nel carcere di smistamento per i disertori ha conosciuto un uomo che si è sparato più volte agli arti pur di finire in infermeria e non dover rimanere sulla linea del fronte a combattere.
E da sopravvissuto A. dice che prova pena perché in Siria c’è una moltitudine di oppressi, che vivono nell’ingiustizia loro malgrado, perché non riescono a esercitare un’altra scelta.
Lo ringrazio, lo saluto, gli dico che il nostro gruppo inshallah andrà a trovarlo presto.

Cip