Per esserci e condividere

Mi sembra di percepire che quello che ti brucia dentro e che ti accompagna a letto la sera quando la giornata è finita, spesso non sia lo sguardo di complicità, reciproca appartenenza, sollievo, felicità di coloro cui stiamo accanto, che riusciamo ad aiutare migliorandone la condizione, o addirittura quando si tratta di salute, ne salva la vita.
Quello che spesso resta per sempre impresso nella memoria è lo sguardo e la voce di coloro a cui bisogna dire che non puoi fare niente per dare una mano, perché in quel caso, in quel momento, non c'è niente da fare.
Resta la sensazione, pastosa come una colla stantia, della propria espressione quando, dai suoi angoli, trapela la vergogna, la delusione, l'indignazione, la rabbia, il dolore verso le circostanze che fanno sì che ci si ritrovi a ricoprire il ruolo di chi dà quella risposta.
Ci vuole stomaco per sopportare quel momento, per riuscire a farlo sostenendo quello sguardo, trasmettendo ancora l'empatia e la vicinanza a cui però in fondo si sente di aver perso un po' il diritto, agli occhi dell'altro/a, nel momento in cui si è impersonato quel ruolo.
Stomaco, forza d'animo, e una grande, sfacciatissima speranza.
Dove trovare questa speranza e come ricordarsi del senso che ha, quando la difficoltà del momento fa percepire la speranza come quasi "fuori luogo"?
Grazie a questi primi mesi di cammino con la Colomba, comincio a scoprire che può esistere un metodo per riuscirci, che però ha senso solo se condiviso.

Questo metodo, che poi è contaminazione continua tra pratica e modo di essere, si può chiamare semplicemente "presenza mentale".
In un momento di meditazione condiviso, di recente, abbiamo ricordato un insegnamento del Monaco zen buddista Thich Nat Han, venuto a mancare qualche mese fa.
Lo abbiamo tratto dalle parole che ha rivolto ai detenuti di un carcere negli Stati Uniti, tanto tempo fa.
Lui a quei carcerati portava parole in grado di costruire libertà.
Anzi, di costruire la capacità di essere la propria libertà, anche quando in apparenza, questo è impossibile.
Di quelle parole mi è rimasta impressa l'esortazione ad essere persona libera, non vivendo nella schiavitù del presente né del futuro.
Per me questo è un proposito perenne, un obiettivo agognato verso cui tendere sempre.
Questo sforzo sembra infinito, probabilmente lo è.
Però, specie da qui, dal pavimento di cemento di una casina tendonata di pochi metri, per pochi centimetri, seduta accanto alle tre sbarrate calde della stufetta elettrica che è il nostro unico rimedio al freddo finché dura l'elettricità, senza una connessione a internet funzionante, quindi senza chiamate, senza messaggi, senza musica, senza PC o TV, qui sento che ci sono le condizioni per interrogarsi sul significato di quelle parole e cercare di metterle in pratica con qualche chance di temporaneo successo.
Non faccio questa considerazione per autoassolvermi dalla mancanza di sforzi seri in questa direzione in una situazione diversa, più simile alla mia "normalità".
Ma perché penso che sì, è la pochezza, la sobrietà, la semplicità, la lentezza, la comunione, che fanno venire a galla nella mente e nello spirito le cose importanti, le cose vere della vita.
Se ci si mette in ascolto.
E se ci si apre alla capacità illuminante dell'incontro con le/gli altre/i.
Nella mia esperienza di questi mesi, le relazioni di cui vive la Colomba non sono che una continua decostruzione di ruoli prestabiliti e assegnati alla nascita o dalle circostanze della vita: chi aiuta e chi è aiutato, chi dà e chi riceve, chi ha risorse e chi bisogni da colmare.
Certo, provando a mantenere sempre vigile la consapevolezza dei nostri ovvi privilegi rispetto alla persone con cui conviviamo, questo mare di scappati/e dalla Siria.
Ma imparando anche tutti i giorni che l'aiuto, o meglio, la solidarietà autentica si pratica oltre la linea del colore (in senso politico) e dell'origine.
Implica vicinanza fisica e vita vissuta quanto più possibile come la vive questa gente.
Richiede di non entrare nei conflitti e nelle crisi con la pretesa di poter applicare modelli di "intervento umanitario" pensati in qualche ufficio di Bruxelles, Ginevra o Washington.
Richiede di farsi insegnare dalla gente a quali bisogni provare a dare una risposta, anche se questo richiede più tempo, più sforzo, meno certezze.
Tanto meglio se si prova a parlare alle persone nella loro lingua, anche a furia di strafalcioni e buffe sgrammaticature.
E tanto meglio se tutto questo lo si fa cercando di muoversi nel rispetto dalla cultura in cui ci si immerge, aldilà e in contrasto con le retoriche su sviluppo e sottosviluppo, civiltà e inciviltà, a cui il nostro (ancora) incrollabile sostrato culturale colonialista ci abitua sin dall'infanzia.
Pur sapendo che uno dei primi passi per rispettare un'altra cultura è imparare a riconoscerne le differenze e le peculiarità, anche rispetto alla propria.

Penso spesso che se dovessi spiegare cosa fa Operazione Colomba in Libano a una persona che me lo chiedesse al mio ritorno, farei fatica e rispondere con precisione in poco tempo.
Forse la descrizione per me più accurata sarebbe che "c'è, dove arriva una chiamata ad esserci". Senza eroismi o narcisismi.
Per esserci e condividere.
C.