I bambini di Tel Abbas

La prima volta che sono arrivata a Tal Abbas ciò che più mi ha stupito sono stati i bambini.

Tanti, rumorosi, curiosi.
Quando ci sono tornata per la seconda volta, di nuovo i bambini mi hanno colpito.
Sempre tanti, affettuosi, più confidenti.
Il campo in cui Operazione Colomba ha la sua tenda accoglie una ventina di famiglie, che si traduce in almeno una sessantina di bambini.
Tutti quanti vogliono essere presi in braccio.
Tutti giocano a scoppiare le bolle di sapone.
Nessuno dice di no ad una partita di calcio o rinuncia a farsi intrecciare i capelli.
Ognuno di loro ha paure e sogni propri, non così distanti da quelli dei bambini che in questi mesi invadono le spiagge rincorrendosi o costruendo castelli di sabbia.
Eppure sono diversi, spesso conoscono la violenza meglio di noi adulti perché l’hanno vista presto e da vicino.

Magari a dieci anni si prendono già cura dei fratellini piccoli come se ne fossero i genitori.
Sanno accendere una bombola del gas e far cuocere le patate.
Ti guardano impauriti quando fuori ci sono degli scoppi perché non sono sicuri se quello che hanno sentito era un fucile o un fuoco d’artificio.
A volte i bambini siriani del campo profughi di Tal Abbas sembrano già adulti, ma rimangono bambini.
Di quelli con i denti ancora da latte, un po’ storti, che intravedi attraverso il loro sorriso quando ti prendono in giro.
Che si vogliono fare un selfie insieme a te.
Che a volte ti sfiancano tante sono le energie che hanno.
Sono bambini a volte tremendi, ma buoni, che vogliono tenerti la mano e farsi sollevare, abbracciarti, e darti un bacio sulla guancia.
E allora fai finta che non abbiano tutto quel mocio che pende dal naso e le mani appiccicose.
Li sollevi, li stringi, li fai girare e poi yalla by.

M.