Un per-dono rivoluzionario

Colombia

E’ sera a La Holandita, il piccolo villaggio nel quale viviamo accompagnando grandi Uomini e condividendo con loro momenti di vita quotidiana spesso ricchi di preziosi doni. C’è chi sparecchia la tavola, chi con un leggero sottofondo musicale lava pentole e piatti, chi passa con uno straccetto il fornello e con molta cura toglie ogni briciola dal tavolo.

Quello che prima era stato il tavolo per cenare, si trasforma quasi ogni sera in un “rettangolo” da gioco che unisce i giovani e i vecchi della Comunità facendoli sedere uno accanto all’altro.

E’ il tanto atteso domino serale.  E’ molto più di un semplice gioco: è una chiacchiera dopo una dura giornata di lavoro, è una tisana o un tinto sorseggiati in compagnia, è un ritrovo atteso che sa di fratellanza, una luce accesa nel buio della selva.
E’ lui il ‘maestro’, Don Annibal, un uomo che al solo vederlo camminare percepisci il peso di tanta sofferenza. Gambe rigide, che faticano sempre più a fare un altro passo. Quel viso cupo dal quale riuscire a strappare un sorriso.
Una guerra che lascia ferite profonde, evidenti. Una guerra che ti ha portato via figli e persone care.
Un cuore duro, ruvido che nasconde all’interno una grande tenerezza. Come quando, tra lacrime di commozione e di rabbia, una mattina mi si è seduto fronte e senza chiedere nulla ha raccontato la Sua storia.
E’ soprannominato ‘el manao’, un animale simile al cinghiale che vive nella foresta, solitario, brutto, scontroso.
E’ soprattutto per lui, una persona sola con la quale solo altri due tre anziani riescono a scambiarci due parole, che questo diventa il momento più atteso dell’intera giornata. Giornate lunghe, contraddistinte a volte dalla tenacia del lavoro nei campi, nonostante le precarie condizioni fisiche e altre dall’arrendersi al tuo cuore che chiede riposo.

Prendo il domino, distribuisco le pedine, formiamo le coppie. E’ già da troppo tempo lì seduto, in un angolo, in attesa che si dica: “ya listo, jugamos!”
Si siede con quel suo cappello di paglia, mani segnate da anni di duro lavoro appoggiate sul tavolo pronte a raccogliere la sfida; sceglie, a volte, il “compañero” o la “compañera”. Iniziamo. Lascia che siano gli altri stasera, stranamente, a mescolare le pedine.

Gioca per vincere Annibal. E io lo capisco.
Si incazza se perde. E io lo capisco.
Si innervosisce se sei tu a provocarlo. E io lo capisco.
Mi diverto con lui. Ma non è semplice giocarci assieme. Ti mette alla prova: misura la tua pazienza, il tuo saper guardare oltre non reagendo alle sue provocazioni.
Ti può regalare un sorriso per una vittoria e subito dopo incolpare per una sconfitta. E io lo capisco. Ma non lo condivido e gli dico ciò che penso.

Io e G.
Annibal e Pacho.
Il vecchio e il ragazzo seduti attorno allo stesso tavolo. Quel vecchio e il ragazzo seduti attorno allo stesso tavolo.
48-13 (si vince al 50!).
C’è una sorta di scaramanzia nel mescolare le pedine. G. mescola. Annibal si infuria. Toccava a lui questo rito.
Punto.
Dice di andarsene a casa, di non voler proseguire il gioco.
Sorridiamo. Passiamo a lui le pedine da rimescolare.
Niente.
Si alza di scatto, allunga il braccio per recuperare la pila.
Incazzato e pieno d’orgoglio esce dalla porta. Non saluta. Se ne va.
Rimaniamo lì, seduti, a vedere quest’uomo incamminarsi verso casa. La risata di Pacho a tagliare un’aria che di colpo si era fatta gelida.
Dentro di noi la speranza che possa tornare per potergli dire: “Que descanse bien!”.
Niente.
Non ritorna.
Salutiamo Pacho. Amareggiate, tristi, deluse, andiamo a dormire con il pensiero di quel vecchio che chissà per quale motivo ha deciso di andarsene così pieno di rabbia.

E’ mattina a La Holandita.
Seduti per la colazione io e G. ci guardiamo e senza dirci tante parole capisco che entrambe siamo ancora turbate da quanto successo la sera prima. Raccontiamo ai nostri compagni quanto successo.
Cerchiamo una ragione.
Ed eccolo che arriva. Penso stesse solamente aspettando che aprissimo la porta per dare il consueto buongiorno al villaggio.
E’ rispettoso. Lo vediamo arrivare ma si siede lì, appena fuori dall’ingresso, in quella panchina arancione.
Aspetta.

Terminiamo.
Ci si alza.
C’è chi sparecchia la tavola. C’è chi con un leggero sottofondo musicale inizia a lavare i panni.  
Ci siamo io e G. ancora lì sedute con l’ultimo goccino di caffè nelle tazze.

Passo traballante. Sguardo timido. Sembra un bambino. Lo vedo aprirsi il cancelletto.
Entra Annibal.
Allunga una mano sulla spalla di G.. Lei si gira: “Buenos Dias”.
Lui, un sorriso incerto, occhi lucidi, mani tremolanti:  “P e r d o n a m e”.

M. è lì, nel cucinino, vede e sente: “è da 5 anni che aspettavo questo momento!”

Non c’è logica, non c’è razionalità.

Un dono grande ricevuto.
Un piccolo gruppo umano consapevole del dolore delle persone e dell’ingiustizia che esse subiscono.
Un piccolo gruppo che ha saputo creare in questi anni di presenza all’interno della Comunità di Pace un senso di appartenenza e di sicurezza per molti giovani e meno giovani.
Un piccolo gruppo che vede sbocciare i frutti della sua semina.
Un perdono che ci fa capire la necessità che abbiamo gli uni degli altri e la forza potente dell’amore.

S.