Il calcolo millimetrico della guerra

Colombia

E' mattina presto, ancora la porta di casa è chiusa. Mentre spengo il caffè si affaccia alla finestra  J.E., un sorrisino dei suoi e un “Buenos Dias” per cominciare la giornata. Appare così, all'improvviso, per scambiare parole, pensieri e notizie utili. Lo invito a entrare e a sedersi. Gli metto davanti una fetta di torta e una tazza di tinto.

Mi siedo anch'io e lo osservo, seduto di fronte a me, mentre si appoggia gli occhiali fini sul naso per leggere l'ultimo comunicato stampa che gli ho appena allungato. E' rientrato da poco da un viaggio a Dabeiba e non lo ha ancora letto.
La mia immaginazione non riesce a trattenersi e, per un fin troppo banale gioco di specchi, si lascia andare al paragone con la foto appesa alla parete di fronte a lui: in un momento me lo raffiguro in bianco e nero e il gioco è fatto. La magrezza, i baffetti stretti, i capelli rasati e il naso spigoloso fanno il resto: “siedo di fronte a un piccolo Mahatma Gandhi colombiano” penso. Poi scaccio rapida, senza troppa convinzione, il pensiero che mi appare azzardato, anche se la somiglianza è notevole, e torno alla realtà della sua voce che mi dice che quanto sta scritto nel comunicato è un fatto molto preoccupante, ma di certo non è una sorpresa. Il comunicato si riferisce alla rinuncia degli avvocati Jorge Molano e German Romero, dell'associazione DHColombia-Sembrar, a proseguire nelle loro cause contro le più alte Istituzioni dello Stato colombiano, in seguito alle minacce ricevute. J.E. commenta laconico che hanno resistito anche troppo tempo considerato il peso delle cause che stavano portando avanti; non solo quella della Comunità di Pace intrapresa già da diversi anni per fare luce, e possibilmente giustizia, sul massacro del 2005 a Mulatos in cui furono massacrate e fatte a pezzi col machete otto persone, ma anche quelle relative alle sparizione forzate nel Palazzo di Giustizia, ai falsos positivos nel Eje Cafetero, all'Operazione Dragone nel Cauca (per assassinare sindacalisti, difensori dei diritti umani e il senatore Alexander Lopez Maya), alle indagini sulle minacce con fini terroristici del gruppo paramilitare denominato “Aguilas Negras” (dove sono emerse le responsabilità dell'ex Presidente colombiano Alvaro Uribe Velez, Francisco Santos e Josè Obdulio Gaviria). Senza poi contare tutte le cause relative alle pseudo riparazioni delle vittime, alle restituzioni delle terre e alle esecuzioni extra-giudiziarie. Tutte cause che vedono tra i principali accusati gli attuali Presidente della Repubblica, il Ministro della Difesa, il Procuratore Generale e il Direttore della Polizia Nazionale.  
“Ci aspettavamo che accadesse, si può dire che eravamo in attesa. Questa è l'ennesima prova della farsa della democrazia colombiana” dice J.E. “In quello che si chiama un Paese democratico queste cose non dovrebbero accadere, ma qui accadono” prosegue. “Il problema è che i colombiani credono alle parole, ai discorsi dei politici, mentre perdono di vista la realtà. Basta pensare a queste elezioni: la gente si trova a dover scegliere, ora, tra Santos e Zuluaga che è il fantoccio dell'ex presidente Alvaro Uribe, esattamente come prima lo è stato Santos. Praticamente la scelta è tra due rappresentanti del paramilitarismo”.
In effetti non ci sono grandi margini e a ben pensarci, considerato che su una popolazione di 46 milioni di persone solo il 40% è andato a votare, è chiaro che la rappresentatività  del voto, il concetto di “votazione democratica”, di “democrazia eletta dal popolo” e quindi di “Paese democratico”, con tutti i limiti e i difetti che può avere di questi tempi a qualsiasi latitudine, qui in Colombia si riduce ancora di più a un lumicino di speranza.
Provo comunque ad azzardare una domanda: “Ma non pensi che comunque negli ultimi quattro anni con il Presidente Santos ci sia stata meno violenza contro la popolazione? O almeno questo è quello che sembrerebbe dai media...”. Con voce calma e senza scomporsi mi risponde: “No. E in ogni caso l'obbiettivo di entrambi i candidati è comunque sempre lo stesso, conservare e mantenere il potere del sistema economico dominante di cui loro sono a capo. In questi anni forse la strategia è stata più “discreta”, ma se uno va a vedere, va a contare i morti, sono stati comunque moltissimi negli anni del governo Santos, senza contare tutte le altre minacce e violazioni dei diritti umani che la popolazione civile ha dovuto subire. L'abbandono delle cause da parte di Molano e Romero è solo l'ultimo episodio di quello a cui ti costringono in un modo o nell'altro in questo Paese, la cui vera faccia ora si nasconde sotto l'etichetta di democrazia con il beneplacito di tutte le democrazie occidentali. Una volta, parlando con un ambasciatore europeo a Bogotà, lui ha osservato: in Colombia è in atto un 'calcolo millimetrico della guerra'. Si valuta e si decide esattamente, a seconda dei momenti, quando e dove è il caso di alzare o abbassare il numero dei morti. E in effetti è così, solo rispetto al passato hanno adottato un ritmo e una comunicazione diversa”.

Osservo le sue mani scorrere i fogli, passare sulla carta e non posso fare a meno di pensare che sono le mani nodose di un campesino, un contadino, uno che nella vita avrebbe voluto solo coltivare il suo campo, seminare riso e seguire il ritmo delle stagioni e della vita, magari con la sua famiglia allargata, e invece si ritrova qui, una mattina, come molte altre, seduto a un tavolo a parlare di politica, strategie del potere e del sistema economico capitalistico che distrugge e fagocita tutto, con una italiana che lo ascolta come se da un momento all'altro dalla sua bocca dovesse uscire una risposta sensata a tutto questo, la soluzione al problema. E so che non sarà così, ma certe lucidità d'analisi e tanta consapevolezza, coltivano facilmente l'illusione che sia possibile, o forse più semplicemente, alimentano la speranza, il bisogno umano di pensare che esista una cura per tutto questo.
J.E. mi parla di giustizia, di lotta, di denunce delle violazioni, di molti terreni da comprare “perché   per elaborare una strategia che funzioni, per lottare ci vuole una visione”. La visione, penso, la stessa di cui parlava M.L. King e rifletto su quanto sia  interessante vedere come, spesso, a distanza di spazio e di tempo, dalle esperienze nonviolente emergano dei comuni denominatori, tra cui appunto la necessità di una visione, di uno spazio della mente più grande, più alto, più libero per potere immaginare una realtà diversa.
Questa guerra senza fine ha costretto J.E. a fare i conti con una violenza inimmaginabile, con i morti, troppi, da raccogliere, di parenti, di amici e perfino di sconosciuti perché “la dignità di una sepoltura non va negata a nessuno”, con gli abusi e le sopraffazioni di tutti i gruppi armati, qualsiasi essi siano, illegali e non, che tanto non cambia, non fanno differenza le mani di chi imbraccia un fucile, semina una mina o impugna un machete. La violenza  in Colombia non ha avuto limiti di alcun tipo, non ci sono stati sconti per nessuno, forse solo in questo senso, penso, si potrebbe azzardare che il Paese e i suoi innumerevoli gruppi armati sono stati “democratici”: nel distribuire morti e sofferenze tra la popolazione civile non hanno fatto nessuna discriminazione di genere, età, provenienza o appartenenza etnica. Eppure la mente e il cuore di J.E. non sono stati schiacciati da tutto questo, si avverte la fatica quando racconta, ma non l'oppressione, non la sconfitta, non c'è rassegnazione nella sua voce, solo la difficoltà, l'enorme difficoltà, di dover misurare ogni volta, di volta in volta, il passo giusto da fare per arrivare il più lontano possibile in questa lotta, come la scalata di un monte di cui non si vede la cima, ma si sa che è lassù.
J.E., come tanti altri qui nella Comunità di Pace, ha vissuto, visto e cercato di fare fronte a molta di questa violenza nel corso della sua vita, continuando a essere presente per tutti quelli che ne avevano bisogno, senza desistere una volta dal denunciare quello che accadeva in nome di una lotta per la verità e la giustizia, di tutti e per tutti. Lui che voleva, e vuole, fare il campesino ha dovuto viaggiare molto in Europa e negli Stati Uniti per raccontare quello che accade nel suo Paese e la lotta che porta avanti la Comunità di Pace per sopravvivere in maniera nonviolenta nel mezzo del conflitto armato, ma anche per porsi come modello di vita sostenibile e alternativo a quello economico dominante che sfrutta e distrugge le risorse del suo Paese, costringendo le persone a umiliarsi o a sfollarsi.

Cerco di ascoltarlo attentamente mentre prosegue nelle sue riflessioni e mi dice che queste elezioni in fondo non lo preoccupano più di tanto “perché tanto il peggio lo abbiamo già vissuto e non  esiste  niente di peggiore che ci possa ancora capitare, la lotta per la giustizia ad ogni modo dovrà continuare”, non importa chi uscirà vincitore dalle elezioni del 15 giugno.
Lo osservo e le sue parole affollano i miei pensieri, mi riempiono la testa ancora una volta perché io non lo so, veramente non lo so, come si fa a vivere per anni e anni in mezzo a tutto questo e non perdere il sorriso, la calma, la forza e l'integrità morale di continuare, giorno dopo giorno, a non smettere di lottare solo perché “questa è la cosa da fare, l'unica cosa giusta che possiamo fare”.
Ed ecco che all'improvviso non mi sembra più fuori luogo o esagerata la sovrapposizione tra questo piccolo uomo dalla pelle scura che siede al tavolo con me e il Mahatma, nelle sue parole ritrovo la stessa determinazione e la stessa forza morale. Mentre finisce di sorseggiare con gesti pacati il suo caffè non posso fare a meno di pensare che il cammino sarà ancora lungo e non saranno di certo queste elezioni ad accorciare la strada, a spareggiare il macabro calcolo millimetrico della matematica impazzita della guerra.

A.Z.