Senza Terra non c’è Vita

Colombia

Lei capelli neri, lunghi, luccicanti, uno sguardo malinconico e in mano un libro: “Agrocombustibles. Falsa Solucion Global y Destruccion Local en Colombia”. Lui, lo stesso libro in mano, il corpo appoggiato a una colonna grigia, sguardo attento, parla concitato al telefono. Con loro A. e due persone con un gilet grigio girate di spalle che distinguiamo appartenere ad un gruppo di scorte civili internazionali. A pochi metri un agente armato dell’UNP1 vigila.

Aereoporto El Dorado, Bogotà. Zona check-in, imbarco lo zaino, tra circa 3 ore ho il volo che mi riporterà a casa. Mi accompagna Moni con la quale ho partecipato a vari incontri nella capitale. Lei il giorno dopo rientrerà al villaggio. Incrociamo A., difensore dei diritti umani dell’associazione Justicia y Paz, con il quale ci eravamo riuniti il giorno prima. Un saluto veloce e un ‘arrivederci’ a presto. Mai avremmo immaginato che presto sarebbe stato da lì a mezz’ora. Ci sediamo trovando a fatica due seggiole libere. Siamo a metà agosto, il periodo ideale per una vacanza nella bellissima Colombia e il flusso di turisti è impressionante. Mi alzo, vado a comprare ‘El Espectador’, un quotidiano nazionale, in realtà non tanto per leggervi le notizie quanto per avere un sudoku per me e regalare un cruciverba a Moni. In prima pagina: “¡No nos callarán!” (non ci zittiranno), un titolo stampato in grande sovrapposto alla foto di un gruppo di giornalisti in protesta contro i continui attacchi verso la libertà di stampa nel Paese. Il giorno prima, infatti, era stato assassinato Luis C. Cervantes, un altro giornalista antioqueño freddato a colpi di arma da fuoco per il suo lavoro di denuncia. Ci sono più di 30 editorialisti nella regione di Antioquia, dove noi volontari di Operazione Colomba siamo presenti, minacciati per il loro lavoro. E questo non è un gioco.
Chiudo il giornale, lo passo a Moni perché legga dell’ennesima bocca silenziata per aver denunciato l’esistenza di alcune frange della polizia corrotte nella regione, e vedo avvicinarsi D., uno dei due internazionali col gilet grigio, che ben conosciamo per essere stato un periodo volontario nella zona dell’Urabà. Ci salutiamo, era da circa 4-5 mesi che se n’era andato dalla regione per lavorare nell’ufficio dell’ONG di cui fa parte a Bogotà. Chiediamo come mai si trovi anche lui lì nel bel mezzo della folla di gente intenta a cercare le “partenze nazionali” per raggiungere le spiagge caraibiche del Paese. Gira la testa a destra e a sinistra, sembra per assicurarsi che non ci siano occhi indiscreti puntati su di noi. In effetti capiamo subito che la situazione è alquanto tesa quando, calibrando attentamente il tono della voce e le parole da far uscire, ci spiega chi sono le due persone dalla pelle olivastra sorvegliate attentamente dall’agente dell’UNP.
E. e M., entrambi leader di “Restitución de Tierra” di Curvaradó, paese ubicato nel municipio Carmen del Darién, regione del Chocó al confine con Antioquia. Tra il 1996 e il 1997 le comunità afrodiscententi di Curvaradó sono state costrette a sfollare forzatamente  a causa delle forti minacce perpetrate dai paramilitari e dalla forza pubblica, con l’intento di mettere in atto un piano di “sviluppo” del territorio. In quattro anni il paesaggio tropicale fu trasformato in piantagioni di Palma da Olio. L’élite politica ed economica del Paese usò la violenza e il potere per assicurarsi il controllo di quelle terre, rubate alla popolazione locale. Ciò nonostante, le vittime dello sfollamento iniziarono una lotta di Resistenza Nonviolenta: nel 2003 fondarono due zone umanitarie con l’appoggio della “Comisiòn Intereclesial de Justicia y Paz”.
Pagarono questa lotta con il sangue (5 leader assassinati dal 2005).
La proposta ricevette l’appoggio di organizzazioni internazionali e colombiane e attirò molti leader comunitari e famiglie che volevano semplicemente ritornare nel proprio territorio. Tuttavia i coltivatori di palma e gli allevatori continuarono insistentemente a pressare perché abbandonassero nuovamente il territorio.
I paramilitari, nonostante il processo di smobilitazione messo in atto dal governo tra il 2003 e il 2006, continuarono a operare nella regione liberamente usando astute tattiche d’intimidazione: tagliarono ad esempio il filo spinato che divideva i predi in modo tale che le vacche entrassero nella proprietà dei contadini e distruggessero le coltivazioni della loro alimentazione base (mais, yuca, fagioli).
Nel 2006, le comunità che fecero ritorno, decisero di fare un’azione più forte per reclamare i propri possedimenti abbattendo le coltivazioni illegali di palma.
Nel 2007, finalmente, il tribunale nazionale aprì un’indagine su 24 coltivatori di palma. La tensione salì inevitabilmente tra le parti. Sempre nello stesso anno una piaga danneggiò le coltivazioni di palma tanto da costringere lo sradicamento delle stesse.
Nel 2009 molte aziende furono costrette ad andarsene. Sempre lo stesso anno, però, alcune imprese di banane e palme ritornarono, invadendo la zona di monocoltura di platano e riaccendendo così il conflitto tra coloro che chiedono la restituzione della propria terra e gli invasori stranieri che hanno occupato con la violenza, grazie alla presenza dei gruppi paramilitari, il loro territorio.

“Vorremmo chiedervi un favore” sussurra D. sempre attento al volume del tono della voce.

E. e M. avrebbero viaggiato nel mio stesso volo. E. e M. in realtà non avrebbero ‘viaggiato’, stavano scappando (per rifugiarsi alcuni mesi nella ‘nostra’ Europa, complice del loro status!) a causa del continuo susseguirsi di intimidazioni e minacce di morte contro il loro lavoro. E. e M. sono due umili campesinos che stanno portando avanti questa lotta di restituzione delle terre, rubate da imprese locali e straniere per mano di gruppi illegali, infrangendo ogni regolamento legislativo. Tra queste, anche imprese italiane.
E. e M. sono sotto protezione dell’UNP per il loro rischio estremo che corre la loro vita.
D. ci informa che, nonostante tutta la documentazione, nonostante E. e M. siano sotto la “protezione” del Ministero dell’Interno, la Polizia che opera all’aeroporto El Dorado di Bogotà, non ha consentito loro (scorte civili internazionali riconosciute dal Governo) di accompagnare fino al Gate E. e M. per assicurare la loro incolumità. Ci spiegava come nell’ultimo periodo siano stati pedinati, minacciati con telefonate e messaggi anonimi, fotografati all’interno di aeroporti.
Il ‘favore’ era quindi di sorvegliare, dopo aver superato il controllo documenti, E. e M. fin tanto che non sarebbero saliti sull’aereo che ci avrebbe portato, per motivi diversi, in quel continente nel quale hanno sede le imprese responsabili di tante atrocità.
Ormai manca circa un’ora alla partenza del volo, E. e M. non vorrebbero lasciare la loro terra e fino all’ultimo non muovono un passo. Sono costretti a lasciare figli, marito, moglie. Sono costretti a lasciare madri e padri. Sono costretti a lasciare fratelli e sorelle. Sono costretti a lasciare la loro terra. Sono preziosi E. e M.
Non potevano più rischiare la propria vita perché quella lotta senza di loro perderebbe d’intensità. Hanno già ucciso 5 leader, hanno già ucciso i figli di quei leader. E., circa due settimane fa, è riuscito a scappare miracolosamente alla morte, nel cuore della notte, dopo un’irruzione nella sua casa da parte di alcuni uomini armati appartenenti a un gruppo paramilitare: “Ho corso, ho corso tanto, sono riuscito a scappare da una porta che dà sul retro della casa. Ora sono qui, ma non avrei mai pensato di riuscire a farcela. Guarda, leggi! Leggi perché anche tu possa renderti conto di cosa significa essere minacciati. Ti scrivono che ammazzeranno i tuoi figli, lo vedi? Sanno dove sei, dove ti sposti. Noi due non potevamo rimanere ancora lì, ci avrebbero fatto fuori. Siamo costretti a fuggire per alcuni mesi. Non abbiamo altra scelta. Rimanere significa morire. E io voglio vivere”. Lei è silenziosa, uno sguardo che emoziona, che parla, che racconta. Uno sguardo ferito ma sicuro. Non si perde.
Gli restituisco il telefono, avevamo appena superato il controllo bagagli ed eravamo seduti al Gate in attesa dell’imbarco. Era un fiume in piena E., parlava veloce, ero spesso costretta a fermarlo perché faticavo a capire tutto e non volevo perdermi le sue parole.
Ci chiamano, ultimi passi prima di salire a bordo. Mi chiedono com’è stare così tanto tempo in volo. Rispondo, con difficoltà, che a me non piace viaggiare in aereo, ma l’idea di  poter ‘volare’ si! “Entonces, volamos...Paloma”.
Sistemiamo gli zaini, il destino ha voluto che fossimo uno fianco all’altro! E lì, ci resto e ci resterò.
Arriviamo a Madrid. Superiamo rapidamente la zona del ritiro bagagli perché non c’è nessun bagaglio da ritirare. Viaggiano solo con un piccolo zainetto che non hanno mai abbandonato. C’è Alberto ad accoglierli, un volontario che già avevamo conosciuto nel villaggio della Comunità di Pace. Li accompagno all’uscita, l’altro volo è tra 9 ore.
Beviamo un caffè. Sono buffi, chiedono un ‘tinto’... gli spieghiamo che lì, in Spagna, se chiedi un tinto è perché vuoi bere del vino. Faticano a concepire che ‘tinto’ non sia il caffè. Sorridiamo.
Restituisco il libro, ci scambiamo i contatti.
Un lungo abbraccio, un abbraccio caldo, un abbraccio pieno. Un abbraccio quasi a volermi dire, ancora una volta, di non stare zitta.

- “Mucha Suerte Queridos”.
“Hasta pronto Señorita”.
- “Hasta pronto...”


Rientro. L’attesa è lunga, il cuore pesante.

Scacciate dalla loro Terra, dal loro villaggio, queste persone si sentono spossessate di tutto, nude. La Terra possiede per loro un valore sovramateriale, è la loro personalità, il loro bene più prezioso, la loro ragione di Vita.

Senza Terra non c’è Vita.

E’ per loro questo scritto, per il loro R-Esistere alla Vita.
Per risvegliare le nostre coscienze.
Per cercare di colmare un vuoto creato da tanto silenzio.

S.