Forza e dignità

Colombia

È trascorso il mio primo mese all'Holandita. Tutto mi colpisce e obbliga a cambiare prospettiva da cui vedere le cose: ogni incontro, ogni racconto, la semplice quotidianità. Negli ultimi due anni ho frequentato come tirocinante un reparto di Medicina Interna dove ho preparato la mia tesi e approfondito i miei rudimenti da (tra poco) medico, imparando a fare il possibile per migliorare la vita e la salute di tanti vecchietti (l'età media dei ricoverati è superiore ai 75 anni!).

Nella mia testa è immediato un pensiero ed un confronto con i vecchietti che incontro qui. La maggior parte vive sola, la guerra si è presa moglie e figli, altri figli sono andati a vivere altrove, lasciando la comunità. Loro però sono attaccati a questa terra e alla loro vita da contadini.
Sorrido: Viviano, quasi 86 anni, mi porta le sue medicine chiedendomi quali siano le pastiglie per dormire, ma due giorni dopo lo incontro con una mula lamentandosi che purtroppo da un paio d'anni non riesce più a montare a pelo, senza sella! Joaquin, 80 anni, lo vedo tutti i giorni  affaccendarsi verso il monte andando a raccogliere, seminare, pulire la sua parte di campo di cacao. Annibal, 79 anni, il grande affezionato a casa nostra e al suo domino serale continua a mettere gli stivali di gomma ed andare para el monte a procurarsi legna per cucinare e, quando riesce, a lavorare un po' la terra nonostante una salute precaria. Questi campesinos attempati ispirano un grande rispetto già solo per la forza e la dignità con cui continuano nelle loro attività, nonostante acciacchi importanti. Quando poi iniziano a raccontare le loro storie, della stagione più feroce della guerra e della nascita della Comunità di Pace, mi sento piccolo piccolo ed incapace di fare altro che non restare ad ascoltare in silenzio il dolore sofferto e la risposta incredibile che hanno elaborato.

La più grande dignità e forza la incontro in don Miguel quando lo accompagniamo a fare alcuni esami medici e in quest'approccio alla sanità scopro anche che in Colombia si lotta a 360°, anche quando la guerra pare non c'entrare molto. Miguel è molto debilitato da un tumore, sta male da aprile ma ancora non ha ricevuto una diagnosi e solo ora sta facendo i primi esami. È stata una battaglia ottenere una visita internistica e poi un'agonia ottenere l'autorizzazione dell'assicurazione per poter fare gli esami, di prima linea per la diagnosi, prescritti dal medico. Queste arrivano a singhiozzo e solo a fine agosto riesce a farli tutti, vincendo anche un ricorso contro l'assicurazione che protraeva i termini e non si pronunciava. La vera battaglia è contro un sistema che di fatto rende inaccessibile la sanità a gran parte della popolazione: oltre all'attesa dell'autorizzazione di qualsiasi visita o esame medico da parte dell'assicurazione, bisogna orientarsi in un mare di documenti e di uffici che li richiedono, non si parlano e si rimbalzano i pazienti. Ad aggiungere barriere c'è il fatto che parte della popolazione è analfabeta o semianalfabeta, bisogna pagarsi il trasporto per scendere in città (8000 pesos che per molti non sono pochi) e si perde la giornata di lavoro o la si fa perdere a chi ti accompagna.

In tutto ciò il tempo passa e la malattia di don Miguel progredisce, lui resta senza una terapia per lungo tempo finché non si riesce ad ottenerne una di minima almeno per il dolore. Vado a visitarlo e lo trovo seduto su uno sgabello appoggiato al muro, passa così tutto il giorno e anche la notte non riesce a  dormire per la tosse e un versamento pleurico dovuti al tumore. Si vede che soffre proprio tanto ma i giorni degli esami si prepara e scende in città senza un lamento, ne resto impressionato.

Abbiamo giorni liberi da accompagnamenti e riusciamo ad accompagnarlo, con un figlio, anche in ospedale. Mi colpisce e fa male vedere i medici e come non vi sia comunicazione con il paziente. È palpabile come siano più disponibili per la nostra presenza: facce pallide e un giubotto rosso= internazionali! Ma anche così visite fatte con una certa accuratezza sono spiegate in una lingua equivalente all'arabo per il paziente, le terapie non sono spiegate ma consegnate scritte su fogli. Manca totalmente la volontà di capire cosa stia vivendo la persona e che aspettative o necessità abbia. Ognuno dritto per la sua strada e se ci stai ad attendere e rimetterti a quello che decido io per te ma che non ti ho spiegato, bene; altrimenti una firma e la porta dell'ospedale è quella, ma così non ricevi né la lettera di dimissioni né alcuna terapia da proseguire a casa. In quest'accettazione del sistema, il peggio è intuire come, a volte, il passaggio obbligato dall'assicurazione sia per il medico più che una frustrazione per l'impotenza davanti ad un paziente sofferente, un lavarsi le mani scaricando su di altri vita e sofferenza.

Intanto la vita a San Josecito continua come sempre: Miguel è qui a casa sua, contento di essere nella sua terra, con la sua gente, rasserenato di non essere in ospedale dove si sentiva solo ed intimorito da non sapere e capire cosa gli facevano. Lo vado a trovare, ha voglia di vedere persone e raccontare: del suo cacao, degli anni della violenza, di come è nata la Comunità, di quei momenti in cui i paramilitari sono stati respinti. È conscio della sua malattia ma sereno di essere qui.
Lo aspetteranno tempi molto duri. Qué te vaya bien don Miguel.

Albert