Le ragioni del NO

Colombia

Quello che nessuno si aspettava, forse nemmeno lo stesso ex-presidente Alvaro Uribe, fautore della campagna per il “NO”, è accaduto: il 2 ottobre il risultato del plebiscito per il consenso al raggiunto Accordo di Pace tra il governo colombiano e le FARC, firmato il 26 settembre scorso, ha avuto esito negativo.
Il NO ha vinto per una manciata di voti, circa 50.000, prevalendo con un 50,21% sul 49,78% del “SI”. Migliaia i voti annullati, spaventosa l'astensione al voto.

Su 34 milioni di aventi diritto, solo 13 milioni si sono presentati alle urne. La mappa delle votazioni nei vari dipartimenti della Colombia è stata inequivocabile: in quasi tutte le regioni colpite più duramente dal conflitto, le vittime hanno votato per il “SI”; loro la pace la volevano davvero, a costo di discutere poi duramente con il Governo sui punti dell'accordo, sicuramente contraddittori e incompleti rispetto a tutte le aspettative di giustizia e democrazia promesse.
L'annuncio della vittoria del “NO” ha fatto sgorgare lacrime di rabbia e di tristezza tra la gente della Comunità di Pace e del piccolo centro di San Josè, vittima ancora una volta per mano della sua stessa gente.
All'astensionismo storico della Colombia a qualsiasi votazione, dovuto alla totale sfiducia nello Stato, si sono aggiunte minacce per chi avesse votato per il “SI”, i voti comprati per 20 euro nelle periferie degradate delle grandi città, i voti per il “NO” dati da una grande parte di cristiani contrari che negli accordi si trattasse anche la tematica del “genere”, sino all'impossibilità di raggiungere la sede della votazione a causa del maltempo in alcune parti del nord del Paese. Ma ciò che davvero ha fatto la differenza è stata la pessima campagna del “SI” rispetto a quella del “NO” che ha  completamente distorto il senso degli accordi sbilanciando l'informazione, puntando quasi sull'idea che la pace firmata avrebbe significato l'ascesa politica degli ex-combattenti delle FARC e la perdita dei privilegi sulla terra. Infatti gli accordi prevedevano che impresari, allevatori di bestiame, alti comandanti dell'esercito e politici che avevano avuto relazioni con i paramilitari confessassero di fronte alla Commissione di Verità e Giustizia i loro crimini; alla confessione non sarebbe seguito il carcere, ma sicuramente una sottrazione dei beni ottenuti con la violenza e l'inganno a scapito dei contadini e delle comunità indigene.
Uribe si è appropriato del “NO” e della destra politica, che è stata l'unica parte convocata dal Presidente Santos dopo la sconfitta.
In altre parole le uniche forze oppositrici convocate per discutere su come tentare di non gettare all'aria l'accordo sono tutte di destra: l'ex Presidente Pastrana, l'associazione delle vittime delle FARC capeggiata da Marta Ramirez e movimenti similari, escludendo ancora una volta la società civile.
Nelle più cupe previsioni si ventila addirittura l'ipotesi che il “NO” sia il risultato che lo stesso Governo Santos cercava per creare un Fronte Nazionale, come nel 1958 tra liberali e conservatori.
Gli accordi prevedevano tra l'altro che con la vittoria del “NO” non si sarebbero potuti ridiscutere i punti concordati, ma ora tutto è confuso e dopo estenuanti riunioni sono state riportate a Cuba le proposte per alcune modifiche che già, ad una prima osservazione superficiale, appaiono un chiaro tentativo non di ampliare, bensì di restringere, l'accordo già esistente.
Basti pensare che una proposta dei sostenitori del “NO” è quella di eliminare, dal punto riguardante la Giustizia, il tema della “giustizia transizionale” e quindi della Commissione della Verità, togliendo la presenza di magistrati internazionali e rimettendo tutto nelle mani della Corte Suprema.
Il timore della destra è infatti proprio la verità, perché anche un solo militare che raccontasse ciò che è veramente accaduto in questo conflitto potrebbe significare la distruzione di Uribe e di molti altri politici ed impresari.

Tutte le critiche sugli inganni e le fragilità contenute negli accordi erano sicuramente corretti sia sul punto della terra, come su quello delle vittime e della partecipazione politica, perché favorivano il clientelismo, soprattutto sulla questione del territorio.
Anche la modalità per la scelta prioritaria dei crimini da sottoporre alla Commissione della Verità era molto ambigua e il timore era che alla fine accadesse come nel El Salvador con pochi casi valutati e molti capri espiatori.
Così sono trascorsi i giorni con una incertezza sempre più grande sul futuro, coscienti che anche se si raggiungesse una modifica dell'accordo, il risultato sarebbe la perdita di quel poco di buono che c'era. La sconfitta del “SI” porta con sé, inoltre, lo spettro della rottura del cessate il fuoco bilaterale, che al momento ha come data ultima il 31 dicembre, a cui si aggiunge il censimento che i militari hanno realizzato del gruppo armato delle FARC e delle loro famiglie e che è fonte di timore per la sicurezza degli ex-guerriglieri.
L'assenza della partecipazione sociale a questa nuova fase politica sembra faccia il gioco della destra che ne vede un pericolo e potrebbe portare a far sì che il partito di Uribe decida di rompere definitivamente il dialogo con le FARC e l'ELN. L'ambiente politico è fortemente polarizzato e il potere mediatico di Uribe è enorme, tanto che la campagna da lui promossa per il “NO” ha trovato l'assenso delle fasce benestanti, e non solo, spaventate dall'idea che il costo economico del reintegro delle FARC avrebbe significato portare la Colombia alla situazione attuale del Venezuela.
Un altro punto scottante è la partecipazione politica delle FARC una volta terminato il processo di reintegrazione e che è divenuto la bandiera dei promotori del “NO”. La negazione di tale partecipazione significa però ritornare alla guerra.

Cosa stiano pensando veramente le FARC al di là delle parole ufficiali con le quali esprimono di volere la pace, è arduo da conoscere. Sicuramente la loro situazione economica è difficile dovuta alla inattività di settimane, sospesi tra le zone in cui avrebbero dovuto concentrarsi e la foresta dove sono dovuti tornare a nascondersi. Non ci sarebbe da stupirsi se molti dei loro uomini si unissero all'ELN.

A peggiorare le cose c'è poi la presenza dei paramilitari delle AGC che avanzano nell'occupazione del territorio che era della guerriglia e a cui il governo non ha dato nessuna risposta efficace e concreta, nonostante nell'ultima settimana di lavoro a Cuba sia stato elaborato un documento per lo smantellamento di tali strutture, documento voluto fondamentalmente dalle FARC.
Lo stesso Padre Javier Giraldo (sacerdote gesuita che accompagna sin dal 1997 la resistenza civile della Comunità di Pace di San José de Apartadò) aveva mandato un suo contributo a Cuba dove suggeriva di toccare il cuore del paramilitarismo, e cioè la relazione tra la forza pubblica e le AGC.
Una domanda che sorge spontanea è perché il presidente Santos abbia voluto il plebiscito, essendo invece in piena facoltà di approvare un Accordo di Pace senza di esso, e senza l'approvazione del Congresso in quanto, secondo l'articolo 22 della Costituzione, “la Pace è un dovere e un diritto di obbligatorio compimento”.
Forse c'era un'agenda occulta o forse un disegno politico ben più importante del successo del “SI”.
Anche se la Corte ha obbligato Santos a rispondere al risultato negativo, il Congresso potrebbe approvare ugualmente l'accordo, ma è certo che nessun partito si azzarderebbe a contestare il risultato del “NO” dato dal popolo.
La stessa Corte Suprema si è indebolita anche di fronte alle denunce fatte per incostituzionalità contro il voto popolare per non avere avuto il quorum del 50% più uno, a cui si aggiungono le denunce per essere stato un plebiscito pieno di menzogne e che potrebbe essere invalidato anche per “spareggio tecnico” vista l'esigua differenza tra il “SI” e il “NO” e per i molti voti annullati e bianchi.
Al di sopra dell'aspetto giuridico e di diritto ha dominato unicamente l'interesse politico che è ben lontano dal coniugarsi con la parola pace.