Nulla di naturale

Colombia

E’ difficile descrivere il dolore. E’ ancora più difficile descriverlo quando si tratta di un dolore altrui. Ma è anche difficile farlo entrare in noi stessi, viverlo e non esserne indifferenti.

Arriviamo in questo piccolo paesino. Non farò nomi di persone e luoghi, per rispetto e per sicurezza.

Come sempre un caldo asfissiante. Scendiamo dal piccolo bus e camminiamo per circa mezz’ora. Visi sorpresi dalla nostra presenza ci fissano al passaggio tra le quadre del paese. Possiamo scommettere che non vedono spesso gringos da queste parti. Ed effettivamente per noi era la prima volta che entravamo lì.

Sapevamo perché stavamo accompagnando P. proprio in quel posto. Arriviamo alla casa della signora M.. Una casa bella, in mattoni, che subito M. ci fa sapere non essere casa sua. Lei non ha nulla.

“E’ lui!”. M. indica con un dito il quadro appeso dietro alla sedia sulla quale è seduta. E’ lui, J., ucciso, non ricordo bene l’anno, tra il 1995 e il 1997. Il suo corpo è stato ritrovato, da poco. Da poco significa non più di un mese fa. Questa è la notizia che P. porta alla donna.

J. non è più un desaparecidos. E’ stato trovato e in seguito riconosciuto da alcune persone che avevano assistito alla sua cattura grazie ad una corda con la quale era stato legato, massacrato, e sepolto nella selva. Solo ossa nella fossa, mentre la corda quasi intatta. Nessuno aveva mai più avuto il coraggio di cercarlo. Solo l’instancabile lavoro di P. guidato da quella speranza mai vana nella ricerca dei resti di migliaia di contadini dati per desaparacidos, porterà J. ad una degna sepoltura.

M. subito dopo la sua scomparsa è scappata a Medellin, non ha retto alla crudeltà della guerra. In tutti questi anni ha vissuto nell’attesa di riuscire a recuperarne il corpo per poter almeno dire ai propri figli che papà è stato ucciso e togliere così il suo nome da quel lungo elenco di desaparecidos. Ora potrà anche recarsi alla registraduria per dare ai figli anche il cognome del padre.

Non ha mai più fatto ritorno a San Josè, solo a sentirne il nome lascia intravedere il terrore nei suoi occhi. E un dolore silenzioso, silenziosissimo. Chi si sarà mai preso cura di lei e del suo dolore? Ha reclamato giustizia passando da un ufficio. Vuole sapere cos’è successo, chiede verità, chiede giustizia. Ancora nulla. Sono passati quasi 20 anni.

Spesso mi capita di sentire quella sensazione che ti porta a pensare che in questo Paese è diventato quasi naturale e normale ciò che naturale e normale non è. Il dolore, ad esempio, il grande crimine di lesa umanità come lo sfollamento forzato al quale anche M. è stata costretta, ad esempio. Perdere tutto e non è un eufemismo. Dopo la sparizione forzata del marito, M. ha perso la casa, la terra, gli animali, il cibo che aveva nelle mensole di legno in cucina, tutto, tutto. Contadini che da decenni vivono e respirano la morte. Se penso alla situazione attuale, quanti morti ancora? Quante minacce?

Ogni qualvolta raccontano le loro storie, o capita di essere testimone come con M. di tanta violenza, di tanto dolore, il cuore si fa pesante e il cammino di rientro più faticoso.

Ed è giusto così, penso tra me stessa perché la guerra non ha proprio nulla di normale e naturale. Ma troppo spesso purtroppo sembra essere divenuta tale. Tutte le guerre hanno le proprie cause e tutte le violazioni ai Diritti Umani una loro intenzionalità. Gli obiettivi sono chiari, generare terrore e dolore. Eliminare l’oppositore. Generare controllo. Nulla di naturale.

Che questo peso mi possa accompagnare sempre, mi ripeto, per non dover entrare mai in quel vortice d’indifferenza e apatia di fronte a tanto orrore.

Silvi