Un passo verso la giustizia

Lo scorso 12 maggio la Corte Suprema de Justicia de Colombia ha condannato sei membri dell’esercito colombiano a pagare 34 anni di carcere per la partecipazione al massacro di 8 persone della Comunità di Pace di San Josè de Apartadò, municipio di Apartadò, regione di Antioquia, avvenuto il 21 febbraio del 2005.
Una sentenza storica come l’hanno definita vari giornalisti sulla stampa colombiana. “Il verdetto prova l’azionare premeditato, permanente e coordinato di militari e “paras” contro la Comunità di Pace” afferma Romero, avvocato delle vittime, al quotidiano El tiempo.
Perché una sentenza storica? E perché è un passo verso la giustizia?

In questo sanguinoso attacco sono stati assassinati Luis Eduardo Guerra, all’epoca rappresentante legale della Comunità di Pace, suo figlio Deiner di 11 anni e la compagna Bellanira. Dopo essere stati uccisi a colpi di machete, i corpi furono lasciati alle intemperie e in preda agli animali selvatici. Poco dopo, altri 4 integranti della Comunità di Pace e un lavoratore furono massacrati, i corpi fatti a pezzi e buttati in due fosse comuni. Natalia aveva 5 anni. Santiago, 18 mesi. Immediatamente la Comunità segnalò pubblicamente come responsabili dei fatti le Autodefensas Unidas de Colombia (AUC) ma la reazione dello Stato fu quella di stigmatizzare i contadini della zona e segnalare che il crimine era attribuibile alla guerriglia delle FARC. I comandanti paramilitari Salvatore Mancuso e Don Berna, nelle dichiarazioni durante il processo di smobilitazione dei paramilitari, conosciuto come processo Justicia y Paz, dissero che gli aiuti militari offerti dalle forze armate, furono vitali per portare a compimento il massacro di San Josè de Apartadò nel 2005.
Per chi, come i volontari di Operazione Colomba, vive al fianco della Comunità di Pace di San Josè de Apartadò e accompagna la loro lotta nonviolenta nella difficile ricerca della pace, della verità e della giustizia, è chiaro che questa sentenza storica è “solo” un passo verso la giustizia. Resistere agli attacchi ingiuriosi, dopo aver visto i corpi dei propri padri, fratelli, sorelle, figli, amici e compagni di resistenza fatti a pezzi e nonostante ciò non cadere nella tentazione di “farsi giustizia da sé”, ma battersi giorno dopo giorno perché la verità venga a galla, scritta, testimoniata, anche dopo ben 14 anni, è un gran valore!
Non darà loro gioia questa sentenza. Non ci sentiremo dire “siamo felici”. Niente di tutto ciò. Nessuno mai ti restituirà il padre, la madre, il fratello, l’amico. Nessuno. Quel dolore rimarrà vivo per sempre. Si saranno alzati come tutte le mattine, stivali ai piedi e machete in vita pronti per una nuova giornata di semina o di raccolto. Non si sentono più forti perché gli è stata data loro ragione, si sono sempre e solo sentiti giusti.
Non avrà cambiato nulla per questa gente leggere su pezzi di carta o su articoli di giornale la verità di quanto successo. E’ da quel 21 febbraio del 2005 che gridano al mondo la responsabilità nel massacro. Sono certa che se chiedessi loro cosa pensano mi risponderebbero con la serenità di sempre che tutto questo è alla fine solo un passo verso la giustizia, perché per una giustizia piena manca ancora molto.
La vittoria di questi contadini è stata quello di aver saputo trasformare quel dolore in speranza, quel dolore in uno sforzo quotidiano alla ricerca di giustizia e di verità. Sforzo che richiede coraggio, amore, perseveranza ma che li ha resi liberi e capaci di creare una nuova umanizzazione laddove l’umanità è stata brutalmente perduta.

S.


Organizzare la speranza,
guidare la tempesta,
rompere i muri della notte,
creare senza chiedere permesso
un mondo di libertà.
Pedro Tierra