Il massacro de La Uniòn, codardia degli armati

Era l’8 luglio del 2000 quando, verso le tre del pomeriggio, un gruppo armato incappucciato entrò nel villaggio de La Uniòn esigendo dalla popolazione civile di sapere chi fossero i leaders della Comunità di Pace.
La gente, unita e decisa, rispose che tutti loro erano dei leaders.
Il gruppo armato, paramilitari ascritti delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia) presero quindi sei di loro: Rigoberto Guzman, il fratello Jaime Guzman, Elodino Rivera, Diofanor Correa, Humberto Sepulveda e Pedro Zapata.
Li misero in fila obbligandoli a inginocchiarsi ma loro rifiutarono.
Furono fucilati in piedi, uno di fianco all’altro.
Un dolore immenso, per noi incomprensibile, avvolse la vita delle famiglie delle sei vittime e di tutta la Comunità di Pace.
Nel mentre, un elicottero dell’esercito sorvolava lo scenario del crimine.


L’8 luglio di quest’anno abbiamo accompagnato questa stessa Comunità nel villaggio de La Uniòn dove da pochi mesi un monumento alla memoria porta scritti i nomi di questi sei contadini con la foto dei loro visi.
In un silenzio surreale, dove il sole riusciva a contrastare le grosse nuvole che minacciavano forti piogge, uno dei membri della Comunità legge uno scritto.
Ho deciso di riportare quasi per intero e renderlo pubblico per tutti noi.
Ancora una volta il mio corpo è stato scosso da forti brividi.
Parole che risuonano forti se penso a questo nostro presente.
Ancora una volta mi sono sentita così piccola davanti a questi giganti.
Ancora una volta mi sono sentita privilegiata per essere lì al loro fianco a nutrirmi di ogni loro parola, concetti così concreti e vivi di resilienza:
“Loro scommisero in un mondo differente nel quale la difesa della terra, la difesa del contadino, la difesa delle risorse è parte fondamentale nella costruzione della pace.
Oggi li ricordiamo perché continuiamo a vivere l’assedio, le minacce, gli assassini contro il contadino.
La riflessione che oggi come Comunità condividiamo è che la resistenza alla guerra, la resistenza alle armi, la lotta per la terra, la lotta per l’acqua, la resistenza alla vita affinché venga rispettato il territorio, è valsa la pena e questa lotta dovrebbe essere degli uomini e delle donne di tutto il mondo, non solo della Comunità di Pace.
In memoria delle nostre vittime, di questi sei contadini che come noi non hanno voluto partecipare a questa guerra, abbiamo costruito l’Aldea Rigoberto Guzman.
Loro seminavano per produrre alimenti per la famiglia, costruirono la propria casa per la famiglia, avevano la propria cacauteras, stavano vedendo i propri figli crescere e volevano, come tutti noi, vivere tranquilli.
Non permettiamo che ci rubino la speranza, non permettiamo che ci tolgano ancora giovani mettendo fine ai loro sogni.
Non permettiamo che distruggano la nostra Comunità né il contadino colombiano.
Non permettiamo che continuino i danni ambientali per tanta deforestazione ed estrazione mineraria.
Camminiamo come Comunità… è ciò che ci tiene legati oggi qui, dove siamo.
Diamo dignità ai nomi delle nostre vittime, costruiamo la pace dalla speranza e dal rispetto alla vita.”
Racconta Eliecer, sopravvissuto al massacro:
“No, non ce ne andiamo, qui abbiamo i nostri animali, le nostre case.
E’ la nostra terra.
Se ci devono uccidere, ci uccideranno qui.
Questo era ciò che gli adulti pensavano e hanno espresso in quel momento.
Era un sabato.
Scappare per me avrebbe significato abbandonare i miei compagni, meglio rimanere con loro ho pensato.
Iniziarono quindi a dividere le persone.
Gli incappucciati non parlavano con la gente, facevano solamente dei gesti per comunicare di andarsene velocemente.
Presero donne e anziani e li fecero allontanare.
Riunirono le persone dai 30 ai 40 anni in un’altra parte e le lasciarono andare lasciando un ultimo piccolo gruppo formato da solo 7 persone, tra le quali c’ero io.
Ero il più giovane, l’unico minorenne.
Eravamo tutti coscienti che “hasta aquì fue el dìa de nosotros” (qui finisce il nostro giorno).
Ero seduto su una una pietra, in attesa della morte.
Quando all’improvviso uno degli incappucciati viene verso di me dandomi un tocco sulla spalla, mi fa segno di camminare velocemente verso il portone.
Mi alzo e cammino.
Stavo quasi per raggiungere il cancello quando mi trovo di fronte un altro incappucciato che mi chiede dove stavo andando.
Rispondo che stavo camminando verso il cancello.
Continuo a camminare a passi lunghi.
Arrivo al ruscello e sento gli spari.
Mi volto a guardare.
A pochi metri da me una signora con le mani incrociate sopra la testa dalla disperazione.
Avevano fucilato i miei compagni.
Cerco rifugio da conoscenti lì attorno.
Terrorizzata, la gente che prima era stata fatta allontanare ritorna e circonda i corpi delle sei persone mentre gli incappucciati spariscono nella selva.
Non sapevamo cosa fare.
L’unica cosa certa è che non avremmo mai potuto abbandonare lì i nostri compagni nonostante la paura che ritornassero i paramilitare per un altro massacro.
La sera stessa verso le 11 di notte arrivò una commissione accompagnata da internazionali.
Rimanemmo lì a vigilare che gli animali non mangiassero i corpi dei nostri fratelli non sapendo che l’orrore ancora non aveva fine.
Il giorno dopo infatti il villaggio si riempì di militari.
I soldati sull’elicottero arrivarono per recuperare i corpi dopo il via libera della Fiscalia; ripartirono, ma giunti a 200-300 metri di quota comunicarono che non riuscivano a resistere all’odore dei corpi ormai putrefatti.
Pensavamo l’elicottero atterrasse di nuovo, invece assistemmo impietriti allo sgancio dall’alto dei sacchi neri dentro ai quali erano avvolti i corpi dei nostri compagni”.
Eliecer aveva 17 anni quando gli è toccato vivere tutto questo orrore.
Eliecer è membro del Consiglio Interno della Comunità di Pace.
Eliecer continua da allora più che mai a scommettere sulla vita.
Eliecer non ha mai pensato di vendicarsi imbracciando un’arma.
Eliecer è un uomo davvero grande e possente.

Silvia