Sfollare

Settembre 2019.
Difficilmente dimenticherò questa giornata.
Dalla prima volta che ho messo piede in questo Paese, 6 anni fa, ho sentito parlare del grande problema dello sfollamento forzato.
Ricordo quando nel 2010 mi raccontavano degli abitanti di Ciudad Bolivar, barrio (quartiere) nel sud di Bogotà dove ho vissuto un paio di mesi.
“Li vedi? Sono quasi tutti desplazados, persone fuggite dalle campagne colombiane per nascondersi dalla guerra”.
“Somos desplazados forzados” è stata forse la frase che più mi sono sentita dire lassù, nella parte alta di quelle colline che circondano la capitale.
Poi sono arrivata nella parte nord della Colombia, l’Urabà Antioqueño, una delle zone più colpite dal conflitto.

In questa comunità di contadini quasi tutti sono stati costretti almeno una volta allo sfollamento forzato.
Quante storie ascoltate dalla loro voce, storie alle volte interminabili di chi ha dovuto abbandonare tutto e scappare.
Di questi racconti fino ad oggi avevo visto solo alcune foto.
Carovane di persone in cammino cercando rifugio in altre zone del Paese o nelle grandi città.
La Colombia è il primo Paese al mondo per numero di sfollati interni: più di 7 milioni di persone costrette ad andarsene dalla propria casa.
Ho cercato di sentire i loro dolori e le loro sofferenze, ho cercato di percepire le loro fatiche, in particolare la decisione, obbligata, di lasciar tutto e scappare.
Dico cercato perché noi non potremo mai comprendere fino in fondo cosa vuol dire sfollare, cosa vuol dire da un momento all’altro essere costretti ad abbandonare tutto, o quasi.
E non potrò comprendere fino in fondo nemmeno dopo questo giorno in cui sono stata testimone diretta per la prima volta di questa tragedia: ci giunge infatti la richiesta di accompagnare un gruppo di contadini della Comunità di Pace di San Josè de Apartadò che, in solidarietà con J., avrebbe raggiunto la sua finca per aiutarlo a portare via più cose possibili dato che in quella casa non vi avrebbe più fatto ritorno.
Almeno per il momento.
Troppo pericoloso infatti viverci dopo che, pochi giorni prima, il figlio della sua compagna viene barbaramente ucciso da un gruppo armato illegale.
L’ennesimo sfollamento silenzioso in tempo di “pace”.
A chi davvero sarebbe importato di loro?
A chi importa davvero di loro?
Sembrano domande stupide e banali.
Ma in realtà non lo sono affatto, perché chi continua ad essere vittima di questo conflitto rischia di divenire solo un numero, un numero da ricordare e una morte da “sbrigare” via in fretta.
C’è un silenzio assordante che avvolge la realtà colombiana per quanto riguarda la popolazione civile che vive nelle campagne.
Le scelte per chi vive nel campo colombiano sono due: o te ne vai o stai alle regole imposte da chi controlla quel territorio.
In realtà una terza via però esiste: da più di 20 anni la Comunità di Pace ha scelto la non collaborazione e la resistenza nonviolenta nel territorio per non dover sfollare.
Quanto dolore negli occhi di quella madre che poco prima di rientrare in Italia mi ha sussurrato disperata: “È dura Silvia, è davvero tanto dura”.
Suo figlio ucciso con 5 spari di arma da fuoco a 23 anni, nella Colombia della “pace”, per non aver voluto sottomettersi a regole dettate da un gruppo armato illegale.
Per aver detto no.
Sentimenti misti tra rabbia e sconforto hanno accompagnato quel mio camminare pesante verso il villaggio.
È stata forse una delle più grandi fatiche emotive vissute in questi anni: assistere inerme allo sfollamento di un’intera famiglia per il timore di subire ulteriori violenze.
Partiamo e raggiungiamo il villaggio su richiesta della Comunità di Pace che voleva aiutare J., ma per poterlo fare era importante la presenza internazionale.
Come protezione.
Come osservatori e testimoni.
I bambini, con i loro sorrisi innocenti, si mettono subito a fare a gara tra chi acchiappa più animali mentre J. procede a smontare il letto fatto di semplici assi di legno artigianali.
Gli uomini ricevono dai bimbi polli e galline e, legate le zampe, vengono avvolti in una foglia di hiraca, allacciati ad un palo e trasportati su di un mulo.
Le donne aiutano J. a riempire i sacchi di vestiti.
In mezzo a tanto movimento, noi lì seduti ad osservare lo sfollamento, mentre J. uomo possente e tenero ci confida che fortunatamente aveva convinto la compagna a non venire per evitarle ulteriore dolore.
Rientrato da pochi anni in quel villaggio, J. è di nuovo costretto ad andarsene.
Mentre la gente continua a chiamarlo per chiedergli “cos’altro c’è da portare via”, inizia a raccontare la sua storia, gli anni più duri della guerra, i pericoli scampati, le notti passate a dormire nella selva per paura di venire ammazzato in casa, la scelta di andarsene e raggiungere un’altra regione del Paese.
Il ritorno alla propria terra perché pensava che il peggio fosse passato.
E ora, a tre anni dal ritorno, un nuovo sfollamento.
Quante fatiche per questa gente!
Quanta illusione!
Un sole intenso mi obbliga a cercare un po’ di ombra.
Sistemato tutto su una decina di bestie tra muli e cavalli, ci rimettiamo in cammino.
I contadini della Comunità di Pace di San José de Apartadó hanno scelto di “perdere” un giorno di lavoro per guadagnarne un altro in dignità e amore di fronte al Paese e al mondo intero.
Senza di loro queste vittime sarebbero state completamente sole.
Anche chi in questo momento rischia la vita per portare avanti questa lotta nonviolenta ha voluto essere presente.
La solidarietà che questa Comunità di contadini sa mettere in pratica stupisce.
Nonostante per loro siano azioni “normali”, fortunatamente noi non smettiamo di stupirci.
Rientriamo.
Mi tolgo gli stivali.
Ho i piedi doloranti a causa del cammino pieno di pietre e dall’andare veloci per evitare l’oscurità.
Dove stiamo andando, umanità?
Cosa dire a questa gente?
Come far capire quanto è stato duro assistere a tutto questo?
Fino a quando continueremo a permetterlo?
Nessuno vi racconterà la loro storia, storia che si somma a milioni di altre storie di vittime sparse per il mondo.
Non ne parleranno i telegiornali, non leggerete nulla sui giornali.
Oggi nessuno si sentirà responsabile dello sfollamento di J. e S..
Forse qualcuno penserà “poverini” e continueremo sulla nostra strada pensando che comunque non è compito nostro fare qualcosa.
E questo, forse, ci tranquillizza.
Abbiamo scelto di stare al lato degli invisibili per spezzare questa catena di silenzio.
Perché queste “storie” devono essere raccontate.
E’ faticoso camminare al loro fianco ma indispensabile per rimanere coscienti.

Silvia