Drappi rossi

Tutti noi stiamo vivendo questo momento di quarantena con preoccupazione per le nostre famiglie e per il nostro futuro in ambito lavorativo e sociale.
Molti sono stati toccati direttamente dal lutto che ha portato via le persone amate, spesso senza un saluto, senza un abbraccio.
E’ molto duro sentire sulla propria pelle il dolore e l’impotenza di quando ci vengono strappate la dignità, gli affetti, le sicurezze economiche; abbiamo sentito vicinanza, empatia, eroismo perché a tutti era toccata la stessa sorte, o come ha detto Papa Francesco, ci siamo trovati nel mezzo della tempesta tutti sulla stessa barca.
Ma ben sappiamo che anche qui nel nostro Paese le barche non sono tutte uguali, c’è chi usa una zattera per attraversare questo momento, ed è per questo che chi ha potuto si è attivato cercando di andare incontro a chi sta vivendo oggi con maggior difficoltà questa situazione di quarantena.

Ma siamo anche consapevoli di che cosa, questo ulteriore gigantesco fardello, abbia provocato nei luoghi dove la gente viveva già la precarietà, la violenza, la guerra, l’ingiustizia, la fame, eppure di tutti loro non si sente più parlare. Prima della pandemia erano solo ostacoli e problemi, ora neppure quello, semplicemente sono invisibili: i poveri, gli sfollati, i migranti ai confini e nei barconi sono improvvisamente spariti dalle pagine dei giornali perché noi qui abbiamo ben altro a cui pensare.
La pandemia è per tutti ma la “guerra” è di ciascuno. Così viene definito da molti questo momento della nostra vita: “una guerra”. Insomma non abbiamo scampo, se in altri conflitti la pace si è raggiunta con un accordo tra le parti, per questa c’è solo una soluzione: sconfiggere il nemico invisibile con cui non ti puoi sedere a fare trattative! Logica ormai cara questa, a svariate soluzioni politiche, comprese quelle sulle migrazioni e quelle economiche. Ecco allora che trova senso che siano diventate “invisibili” tutte quelle “categorie” di ultimi che non hanno più volti, né nomi e che bisognerà in un modo e nell’altro sconfiggere come nemici che attaccano i nostri confini di pelle o di territorio; con gli invisibili non si dialoga.
Il dolore è sacro e non può essere pesato, questo è certo, ma mi chiedo se i tanti attuali pensieri e discorsi sgorgati come fiumi in piena dopo questa tragedia sul tema della cura dell’ambiente, della necessità di un cambio di stile di vita, di una scoperta della sacralità del legame tra l’uomo e la natura non abbiano quel sapore ipocrita di chi, raggiunto improvvisamente il fondo, pur avendo avuto prima mille avvertenze, si ritrova ora a voler mettere un cerotto su un arto amputato.
Quante volte nell’esperienza, nei racconti, negli scritti di tanti volontari di Operazione Colomba si è data voce alla vita di migliaia di vittime di violenze inaudite, di politiche economiche ingiuste. Gente umile, che spesso è perseguitata o uccisa per aver reclamato il Diritto alla vita, alla terra, al pane.
Vivere sfollato in tenda, scappare con quattro stracci ed i tuoi figli aggrappati alla schiena perché un gruppo armato ha invaso il tuo villaggio, vedere le imprese trasformare la biodiversità in ricordo e l’operaio in schiavo, sapere che milioni di essere umani non hanno né cibo né acqua sufficienti per sopravvivere, non a causa di un virus chimico ma di quello dell’individualismo, dell’egoismo, della corruzione, del neoliberalismo non aveva già provocato una “pandemia” di violazione assoluta dei Diritti Umani?
Eppure di fronte a tanto, sono stati più gli atteggiamenti di chi ha voluto voltare le spalle o chiudere gli occhi piuttosto che mettere in discussione sistemi sbagliati e mortiferi.
Dalla Colombia hanno fatto il giro del mondo le foto delle famiglie che hanno esposto drappi rossi alle finestre per indicare che lì non c’era più nulla da mangiare a causa della quarantena; ma in Colombia come in molti altri Paesi latino americani, africani, asiatici ed orientali di drappi rossi messi fuori per la violenza strutturale, gli omicidi di difensori e difensore dei Diritti Umani, ambientali e di chi reclama un pezzo di terra per vivere, ce ne sarebbero a milioni.
Mi hanno commosso le parole di una ragazzina filippina che ha affermato di voler seguire le orme del padre che è stato ucciso perché reclamava il diritto alla sua terra strappata da una multinazionale: “vorrei dire ai padroni di questa piantagione che abbiano pietà di noi che non abbiamo niente se paragonato a tutto quello che loro hanno”.
Vorrei appendere fuori dalle nostre finestre un drappo rosso per ogni volta che siamo stati, con le nostre scelte, complici di queste morti oppure, se questo turba troppo le nostre coscienze, appenderli almeno in solidarietà con chi ha fame e muore per le ingiustizie di guerre organizzate a tavolino e non da invisibili molecole chimiche.
Magari, i drappi, li appenderei vicino alla bandiera italiana, agli striscioni del “tutto andrà bene” perché se la pandemia è per tutti allora per tutti ci deve essere un lieto fine.
M.