L’importanza di dire sì

La storia di Eduar Lanchero ha marcato profondamente il cammino della Comunità di Pace di San Josè di Apartadò, ma anche la coscienza dei tanti che lo hanno conosciuto, io compresa.

Dai racconti di chi ha condiviso con lui all’interno della Commissione di Giustizia e Pace i lunghi anni di ascolto delle denunce di migliaia di vittime del conflitto, Eduard appare un giovane molto taciturno, riflessivo; il silenzio, dicono i suoi compagni, era quasi una disciplina quotidiana. Ma dentro di lui quello spazio fisico ed interiore in cui raccoglieva le storie di tante crudeltà ed il dolore di innumerevoli sfollati diveniva sempre più stretto. Si era laureato in teologia e filosofia pagandosi gli studi vendendo lungo le strade di Bogotà i tamales (massa di mais con riso e pollo avvolti in foglie di banano o agave) che sua madre Isabel lo aiutava a preparare.

Isabel, una roccaforte di fede e amore incondizionato che al momento della morte di Eduard avvenuta il 26 giugno 2012 per una grave malattia disse: “l’unica consolazione in questo grande dolore è sapere che mio figlio non è stato assassinato ma è morto per cause naturali”.
Sicuramente è stato anche grazie a lei che nel cuore di Eduard ha preso sempre più forma una smisurata sete di giustizia, una passione per la pedagogia popolare impregnata di Freire e Freinet passando da Marx e molti altri.
Eduar divenne un difensore dei Diritti Umani come corso naturale rispetto alla sua sensibilità ed intelligenza. Uscì dalle pareti di Bogotà ed iniziò a vivere anche sul campo con le vittime, non solo ascoltandole ma formandole rispetto ai loro diritti, proponendo insieme a loro strategie di resistenza nonviolenta proprio negli anni più efferati del conflitto interno colombiano.
Siamo infatti nel 1997 anno in cui Eduard, dopo aver trascorso 5 anni tra studi, formazione e condivisione in zone dove il conflitto era più acceso e dove è testimone oculare di numerosi assassinati, invece di rientrare a Bogotà decide di andare a San Josè di Apartadò ad accompagnare la Comunità di Pace giunta al bivio anch’essa tra lasciare il territorio o essere sterminata dai gruppi armati legali e illegali. Ed è lì che Eduard diviene appieno l’uomo che voleva essere: fermo, gentile, coerente, coraggioso, strategico tanto da cambiare il suo ruolo di accompagnante della Comunità in membro effettivo della stessa. I suoi stessi compagni riconoscono che in Eduard si identificano tutti coloro che non sono artificiosamente accompagnanti, ma piuttosto quelli che si mettono al fianco, che si convertono alla causa e assumono se stessi come parte di una scommessa esistenziale, storica di dignità e liberazione.
La decisione di andare a San Josè fu presa di notte. Era un gruppo di una quindicina di persone, racconta Padre Javier, gesuita ed amico di Eduard, accompagnante anch’egli della Comunità di Pace; stremati dalla situazione di ingiustizia e di violenza che stavano vivendo al fianco di migliaia di sfollati, il gruppo era in riunione per decidere cosa fare tra cui rientrare nella capitale; in quel frangente giunse però il grido di aiuto della Comunità di Pace che chiedeva accompagnamento costante o sarebbe stata costretta ad abbandonare il territorio a causa dei continui massacri che la gente subiva. Padre Javier chiese se qualcuno si sentisse in grado di accettare la richiesta pur sapendo che forse sarebbe stato ucciso. Eduard, come immaginerete, fu il primo ad alzare la mano ed il giorno dopo insieme ad altri due compagni giunse a San Josè. Da quel giorno sino a ogni prossimo 26 giugno in cui si ricorderà l’anniversario della sua morte, la sua vita rimarrà vera luce.
Sì, anche dopo la sua morte, Eduard è ancora spiritualmente presente, memoria viva nella gente della Comunità e forza propulsiva nella lotta per la giustizia.
 Divenuto corpo e anima membro della Comunità di Pace, Eduard si assunse tutti i rischi dovuti alla sua attività anche politica di denuncia contro le barbarie della guerriglia, dei paramilitari e dell’esercito colombiano. La sua voce arrivò sino in Europa, la sua saggezza e calma anche nei momenti più avversi sono divenuti balsamo di coraggio per i cuori ancora incerti nella lotta. Divenne un perseguitato, un pericolo per i gruppi armati, un ostacolo per chi voleva distruggere ogni movimento sociale, ogni proposta economica alternativa. Ma ancora una volta alla domanda se davvero volesse persistere in quella lotta rischiando di perdere la sua vita, la risposta fu: “sì”.
La sua irremovibile certezza che finché il dolore si trasforma in speranza allora c’è comunità è oggi incarnata e vissuta sulla pelle di tante comunità di resistenza in Colombia.
La costruzione sociale che rompe con la paura e la violenza è la vera strada per la pace. Dire di sì anche quando forse non ci si sente pronti fa decisamente la differenza tra agire e rimanere a guardare.

M.