Grazie a tua madre

È un racconto inaspettato, imprevisto. Anche per chi da tanti anni è qui al “suo fianco”. Dalla finestra di casa lo si vede montare sulla cavalla (o mulo) e, con un semplice verso, partire in cavalcata per raggiungere i campi. In realtà molto più spesso succede il contrario: lo intravediamo al rientro visto che è abitudine, nella vita contadina, madrugar (svegliarsi molto presto al mattino) e noi a quell’ora siamo quasi sempre ancora a riposare.
Persona schiva, silenziosa. Statura bassa, pelle stranamente chiara. Sguardo timido e penetrante che cela nel profondo grande dolore. La sua storia un po’ la conosciamo. Per racconti da parte di terzi. Di certo non pensavamo fosse proprio lui, un ragazzo così timido, che, in una sera di febbraio e dopo aver assaporato la cucina colombiana con un bel piatto di pollo, riso e patacones (platano verde fritto), ci raccontasse così dettagliatamente di sé, dell’assassinio di suo padre, della sua rabbia, della sua paura e della sua salvezza.

Ci avevano quindi invitato a cena. Lo fanno spesso le famiglie della Comunità di Pace, è un gesto enormemente bello di affetto verso di noi e verso il nostro essere lì con loro. La figlioletta arriva ad avvisarci: “Palomas, vi aspettiamo per le 6 (di sera) a casa nostra per mangiare patacones”.
Erano le 4.30 del pomeriggio e avevamo da poco finito di pranzare dato che eravamo state impegnate in un accompagnamento. Pensare che da lì a due orette ci aspettava una bella cenetta di platano fritto ci ha fatto digerire in fretta il pranzo, anche perché non potevamo fare altro che…accettare! A dire il vero abbiamo chiesto di posticipare la cena di mezz’oretta per poter finire alcuni lavori. Siamo proprio italiane! Penso si sia fatta una gran risata Sayda alla richiesta di “tardare” un pochino la cena visto la concezione del tempo così vaga in Colombia!!!

Entriamo in casa, un piccolo tavolino in mezzo alla sala. Nella vita contadina non si usa mangiare seduti attorno ad un tavolo. Se c’è, una sedia è già tanto. Spesso il pavimento o un tronco di legno. Mentre in quella casetta internazionale dove viviamo al centro del villaggio, la gente osserva da anni le nostre usanze. E così, con un gesto molto nobile e per nulla scontato, ma d’altronde sappiamo di condividere la vita con persone dall’animo grande, ci fanno (quasi) sempre trovare un tavolino sul quale appoggiare il piatto perché “vi vediamo un po' impacciati altrimenti”.
Lui non c’è, niente di strano in realtà. La sua timidezza in queste occasioni fa sì che fatalità abbia sempre “qualcosa” da fare per motivare la sua assenza. Lo conosciamo bene e per questo non mancano le battute e i sorrisi con la sua compagna. Ci sediamo, arriva il piatto con pollo e patate e, a parte, il riso. A centro tavola, i tanto attesi patacones. Un delizioso succo di mora per accompagnare la cena ed è fatta. La bimba, appena finito di mangiare, corre al chiosco dove intanto è iniziata la proiezione di un cartone animato mentre il fratellino resta lì a chiacchierare con noi.

Ed eccolo arrivare. Si scusa con noi per non essere arrivato prima ma doveva portare le proprie “bestie” (cavalla, puledrino e mulo) nel terreno, un pezzetto di proprietà collettiva della Comunità di Pace che lui amministra, per non lasciarle nel centro abitato del villaggio.
Si siede su una di quelle sedie chiamate perezosas: un po' una nostra sdraio, ed in effetti a sederti devi poi saper vincere la pigrizia nel rialzarti, soprattutto verso fine giornata quando la stanchezza inizia a farsi sentire. Almeno per me.
Santiago avrà non più di 40 anni. Ha due splendidi figli, un figlio e una figlia ad essere precisi. È un papà molto presente, cosa per nulla scontata. È un papà che non ostenta a dimostrare il suo grande affetto per loro. Vive con una bellissima compagna, la madre dei suoi figli, una delle educatrici della Comunità. Appassionato di animali, li cura sempre con estrema attenzione.
Qualche volta lo si vede giocare a calcetto. Molto più spesso però lo vediamo preso nel delicato lavoro di addomesticare puledri e muletti: altra sua grande passione.
Ma Santiago è anche e soprattutto molto altro. Santiago è un sopravvissuto al conflitto. Per non essere stato ucciso. Per aver scelto di non uccidere.
Grazie a sua madre.
Non mi è ben chiaro perché quella sera ha scelto di raccontarci la sua storia. Forse un perché non c’è e semplicemente dopo tanti anni, era proprio quello il momento in cui sentiva di volerlo fare.
Era la prima volta che sentivamo Santiago raccontare così nel dettaglio un vissuto che l’ha segnato per sempre ed era la prima volta anche per la sua compagna e per il figlio di 9 anni.

Era il 19 febbraio del 2000. La Comunità di Pace era prossima a compiere 3 anni di r-esistenza. Le vite silenziate sinora erano già state molte. Ma questo gruppo di contadini e contadine non erano disposti ad abbandonare la lotta, la terra, la propria casa nonostante la violenza, i continui assassini, massacri, furti, nonostante la fame, le minacce, il terrore. Nonostante tutto ciò erano disposti ad andare avanti: nessun ripensamento, nessuna rinuncia.
E tra queste persone, tra questi eroi disposti a non arrendersi, c’era Luis Ciro, papà di Santiago e di altri 4 figli.
Erano circa le 6 di sera e Santiago, assieme ad un cugino, si trovava nella cappellina del paesino di San José, non molto lontano dalla piazzetta nella quale il 23 di marzo del 1997, cioè tre anni prima, la Comunità di Pace aveva letto la dichiarazione che la vedeva nascere. All’improvviso arriva la notizia che circa 20 uomini fortemente armati, incappucciati e con addosso stivali di gomma, erano entrati a San José. Nemmeno il tempo di ascoltare queste parole che alcuni di loro si presentano nella chiesetta gridando alla gente presente di stendersi a terra e di rimanere in silenzio. Chiedono al pastore pentecostale di indicargli una persona, facendo nome e cognome della stessa. Il pastore indica il cugino di Santiago. I paramilitari lo obbligano ad uscire di lì ma lui non ne vuole sapere, cosciente di cosa significa. Il pastore lo guarda e lo convince ad uscire. Passano pochi istanti, Santiago sente i colpi del fucile.
Assassinato.
Santiago, assieme alle altre persone che in quel momento si trovano all’interno della chiesa, rimane disteso per alcuni minuti, tremando dalla paura: così racconta.
All’improvviso un abitante del paesino entra correndo nella chiesetta alla ricerca proprio di Santiago. Appena lo vede, la frase arriva dritta al cuore e alla mente: “corri, corri… hanno ammazzato tuo padre!”.

Luis Ciro aveva una piccola bottega dove vendeva generi di prima necessità. Era una persona molto buona, raccontano i figli, la vedova, i compagni e le comagne della Comunità. Una persona accogliente, disposto ad aiutare chiunque fosse in difficoltà.
La bottega, dalla cappellina, distava circa 500 metri, non di più.

Quando Santiago raggiunge la casa, trova il padre steso per terra, privo di vita. Morto. Ammazzato.

Assieme a lui e al cugino di Santiago, quel giorno furono 6 le persone assassinate dai paramilitari.

Santiago si mise a correre, verso dove non lo sapeva nemmeno lui. Sentiva dietro di sé i passi di qualcuno: era convinto che anche a lui stesse toccando la stessa fine. Invece era un amico che gli urlava di fermarsi. Lui non ne volle sapere, non voleva tornare in quella casa mai più. Arrivò prepotente e come un fulmine quel pensiero: prendere il cammino, il sentiero, raggiungere la selva e imbracciare le armi. Sfogare tutta la rabbia, il dolore, la disperazione per aver visto un uomo buono, suo padre, assassinato. Era l’unico pensiero che in quel momento la sua mente riusciva a elaborare.
Quanti giovani, nella guerra civile in Colombia, hanno scelto questa strada dopo aver visto l’orrore di un familiare assassinato? Quanti?
Perché questo è stato e purtroppo è ancora uno degli obiettivi della guerra di cui poco si parla, la vendetta: non solo assassinare, uccidere, minacciare ma portare i giovani all’esasperazione, alla sete di vendetta e così, imprigionarli e tenerli servi di un sistema violento.

Nessuno, forse, potrà aiutare a farti cambiare idea. Noi non possiamo capire questo dolore.
E io non sono nessuno per giudicare certe scelte perché non ho visto mio padre assassinato, non ho visto il suo corpo riversato a terra e il suo volto irriconoscibile a causa dei proiettili che gli hanno fracassato il cranio.
Non ho vissuto il terrore di essere circondata dai paramilitari armati e vederli sparare alle spalle a un cugino mentre tenta di scappare.
Noi questo orrore non l’abbiamo visto, non l’abbiamo vissuto. E non lo potremo mai comprendere fino in fondo. Lo possiamo però ascoltare, farlo nostro e averne cura.
Questo sì.
È forse l’ “unica” azione a noi concessa, a noi che viviamo troppo spesso inconsapevoli di troppe ingiustizie con l’aggravante del nostro silenzio o del nostro esserne complici a causa delle nostre azioni, delle nostre scelte, della nostra passività.

Santiago trova la forza, quello stesso giorno, di ritornare dalla madre. Lei aveva già capito tutto, bastò uno sguardo. Delfa guarda suo figlio e le uniche parole che riesce a pronunciare furono: “non lo fare, per favore, non lo fare”.

Santiago non imbracciò le armi. Se ne andò per un bel po' di anni, lontano da quei posti, lontano da sua madre, dalla sorella, perché “non ce la facevo a stare lì, a dormire lì, a mangiare lì. Tutto ricordava mio padre, il suo volto, e quel sangue”.

Santiago tornò dopo un po' di anni, la madre, assieme alla sorella, continuavano a fare parte della Comunità di Pace. Al principio inizia a lavorare un po' da alcuni amici. Poi, piano piano, Santiago si avvicina alla Comunità: “ho visto un gruppo che lavorava insieme. L’unica alternativa possibile per non aver nulla a che fare con tutto il resto”.

Oltre al papà, Santiago ha perso anche due fratelli che non sono riusciti a resistere al dolore e hanno intrapreso il cammino della vendetta imbracciando le armi per vendicare la morte del padre. Morti in combattimento, entrambi.

Santiago ora vive in una casetta di legno assieme alla compagna, al figlio di 9 anni e alla figlia di 7.
Santiago è membro attivo della Comunità di Pace.

La compagna, durante il racconto, non gli ha mai lasciato la mano.
Il figlio, in braccio alla madre, non guardava il padre ma spostava lo sguardo da una parete all’altra. Chissà come mai lui quella sera ha scelto di non andare con la sorellina a vedere il cartone animato che proiettavano al chiosco.

Santiago conclude così: “questa è la mia storia”.
Non abbiamo fatto domande. Non avevamo nulla da dire. Solo silenzio.

Ci siamo alzate. Abbiamo ringraziato. Si, anche per la cena, ma abbiamo ringraziato soprattutto lui.
Santiago ha risposto con un cenno della testa, com’è solito fare. Persona di poche parole.

“Las esperamos otra vez”.

Certo Santiago, verremmo a casa tua un’altra volta ancora: grazie a tua madre!

Silvia