L'ultimo della fila

Era un sabato. Precisamente sabato 8 luglio del 2000 quando i paramilitari, coordinati con la Brigada XVII dell’esercito, entravano nel villaggio della Union dove decine di famiglie della Comunità di Pace avevano fatto ritorno dopo essersi rifugiate per lungo tempo a San José a causa del conflitto. Quel pomeriggio, intorno alle tre, 20 paramilitari incappucciati riunirono tutte le persone al centro del villaggio e chiesero a gran voce chi fossero i leader. Tutti in coro risposero che non vi era nessun leader, che tutti lo erano.
Gli uomini armati scelsero quindi 7 persone a caso tra la gente presente: Rigoberto Guzman, suo fratello Jaime Guzman, Elodino Rivera, Diofanor Diaz Correa, Humberto Sepulveda, Pedro Zapata e Eliecer Guzman di soli 14 anni, nipote di Rigoberto e Jaime.

La gente era terrorizzata e sapeva bene cosa sarebbe accaduto da lì a poco. I paramilitari passarono davanti a ciascuno dei 7 giovani scrutando i loro occhi spaventati ma impavidi. Quanta paura avessero nessuno lo può dire, quanto coraggio sì e la Comunità di Pace, insieme a chi la accompagna, questo coraggio lo ricorda e celebra ancora l’8 luglio di ogni anno, recandosi in quel luogo.
Mi immagino quel momento in cui i paramilitari, coperti dal passamontagna, scrutano quei volti innocenti, una lotta tra il buio della violenza e la luce di chi della nonviolenza ne ha fatto una scelta di vita. L’ultimo di quella fila di eroi era Eliecer; quando gli uomini armati arrivano a lui, uno di loro lo guarda e scuote la testa indicando un “no” e rapidamente ordina ad Eliecer di andarsene… Eliecer corre ma non arriva al portone del villaggio, a poche decine di metri da dove erano tutti gli altri, che i suoi sei compagni vengono fucilati. Le grida ed il dolore della gente sono ancora impressi in chi era lì, in Eliecer in modo indelebile, solchi profondi nel suo animo. Perché Eliecer dopo tutto questo non è fuggito al suo destino di leader della Comunità di Pace e per anni è stato membro del Consiglio Interno della Comunità ed oggi vive ancora alla Union, in uno spazio dedicato allo zio Rigoberto.
Eliecer è una delle pochissime persone che io conosca che non ha un soprannome come qui si usa. Sarà perché non lo puoi chiamare diversamente. Un uomo alto, forte, silenzioso... minacciato. Minacciato perché vive ancora alla Union dominata, come allora, dai paramilitari. Minacciato perché la sua mitezza è più forte dell’arroganza di chi lo minaccia e la sua umiltà è più virile di un uomo con la pistola.
Ogni anno l’8 luglio lui è tra quelle persone che raccontano, come fosse una preghiera, quello che accadde quel giorno. Il fare memoria è uno dei pilastri della Comunità di Pace ed Eliecer lo fa rivivendo ogni anno dentro di sé ogni minuto di quel sabato. Alle sei persone che vennero fucilate i paramilitari ordinarono di mettersi in ginocchio. Nessuno lo fece. Non si sarebbero mai inginocchiati di fronte alla violenza, né di fronte ad un gruppo armato, ed Eliecer neppure. Forse sente ancora il peso di quella corsa verso il portone, un debito di vita che invece che spingerlo a scegliere la via più facile ed andarsene a vivere in qualche città, lo ha fatto rimanere lì a guidare la Comunità di Pace e a guidare se stesso in quel cammino di nobiltà, di coerenza, di pace e coraggio tipica di chi alla fine rimane più legato alla giustizia che alla propria vita terrena.
Lo scorso 8 luglio, però, è accaduto qualcosa di ancora più doloroso. Mentre la Comunità era riunita alla Union intorno al monumento dedicato alle sei vittime ed Eliecer ricordava l’accaduto, alcuni individui, tra cui un giovane appartenente ai paramilitari, hanno messo a tutto volume della musica inneggiante ai gruppi armati illegali e sprezzanti, bevendo e ridendo canzonavano la gente della Comunità lì presente. La musica sovrastava le parole di Eliecer; la gente ha cercato di stringersi più che poteva intorno a lui per proteggere quei ricordi, quel dolore. Sua sorella Mery lo ha abbracciato. Ma per la prima volta penso nella sua vita, Eliecer di fronte alla sua Comunità ha pianto e non è riuscito più a proseguire il suo racconto. Quanta nonviolenza c’è nel suo essere, nel suo rimanere composto di fronte a coloro che insultano la sua sofferenza, i suoi ricordi più intimi? Molti di noi avevano le lacrime agli occhi e la gola chiusa. Mi sono avvicinata a lui, solo, seduto su una pietra, intento ancora a non far uscire più nessuna lacrima, perché quegli uomini violenti non possano raggiungere mai più il suo cuore. Ho messo la mano sulla sua spalla e gli ho detto: “Eliecer, ti vogliamo bene e ti stimiamo per quello che sei, per il coraggio che hai avuto a donarti di fronte a questi uomini” ...lui ha alzato lo sguardo e mi ha risposto: “si, è difficile parlare in questo luogo con loro ancora qui, gli stessi che hanno ucciso queste persone... ma noi siamo ancora in piedi”.