5° non uccidere

Lo sgomento in questi giorni per l’acuirsi della guerra in Ucraina ha invaso i cuori di molti di noi che si sono sentiti improvvisamente “vicini e coinvolti” in una guerra alle “porte di casa” ma che in realtà era iniziata nella primavera del 2014 e aveva causato già 13 mila vittime e 1,5 milioni di sfollati interni prima di questa recente recrudescenza, ma ben pochi se ne erano interessati.
Oggi l’empatia verso tanta sofferenza e l’indignazione per l’ orrore che sta vivendo il popolo Ucraino è sacrosanta, come doveroso è intervenire e portare solidarietà e soccorso a tanta gente che sta fuggendo.
Anche noi, come Associazione Papa Giovanni XXIII siamo andati subito in Ucraina per aprire un Corridoio Umanitario.
Ma il mio pensiero inevitabilmente va anche a tutte quelle migliaia di vittime scappate da altre guerre che per non essere sentite come “nostre” o “vicine” o “minaccianti” ci hanno portato ad alzare muri e fili spinati per confinare tante creature tra il freddo, la fame e l’oblio, negando loro qualunque possibile futuro. Mi chiedo quindi come sia possibile che le lacrime di quei bambini africani, afgani, siriani… siano meno degne del nostro abbraccio e della nostra capacità di accoglienza.

Mi domando per quale ragione quei genitori con i piedi piagati per aver camminato per settimane, quelle mamme spesso torturate e violentate e in viaggio da mesi con in grembo la speranza di una vita più giusta, siano cittadini di classe B; sarà perché non venivano da territori europei? Esiste una solidarietà che si muove a seconda dello Stato di provenienza della vittima? O esiste una certa ipocrisia che non ci permette di riconoscere nostro fratello/sorella al di là della provenienza geografica?
La guerra non nasce da un giorno all’altro, la guerra si calcola, si misura tra il braccio di forza di poteri e governi con un unico obiettivo: l’interesse economico, l’asse geo politico, chi controlla le risorse ha il potere, il resto non conta. Le sue radici affondano nell’ingiustizia.
Tra il 2011 ed il 2015 il governo italiano ha autorizzato l’invio di armamenti in Russia per 131 milioni di euro nonostante l’embargo commerciale dell’Unione Europea per il conflitto nel Donbass.
Dal 1998 al 2020 la stessa Unione Europea ha fornito 344 milioni in armi all’Ucraina e ha autorizzato 1,9 miliardi verso la Russia.
Oggi dopo blandi e tardivi tentativi diplomatici per cercare una soluzione al conflitto, quello che è certo è che il flusso delle armi verso l’Ucraina è continuo e ben poco messo in discussione. Migliaia di persone in tutto il mondo sono scese in piazza per manifestare a favore della pace; pochi però hanno chiesto che invece di inviare armi si trovino soluzioni diplomatiche inviando per esempio una delegazione europea a Kiev per aprire un dialogo. La maggior parte dei cittadini europei invoca la pace mentre si allaccia l’elmetto. L’incubo di un incidente nucleare o addirittura di un attacco ci ha fatto guardare, giustamente, alle azioni militari russe come ad un crimine di lesa umanità, ma non ci ha fatto gridare all’unisono affinché l’Italia firmi il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari ratificato da 50 Paesi ma non dal nostro.
Non solo dare armi non porterà alla pace ma provocherà un aumento vertiginoso della violenza che ci spingerà a continuare a dividere il mondo tra buoni e cattivi, tra guerra e pace, dove il comune denominatore rimarrà sempre l’uso della violenza.
A dirlo non sono solo io che vivo in una comunità di contadini in Colombia che da 25 anni subiscono soprusi e assassinati e mai hanno preso un’arma in mano, ma anche gli stessi attivisti russi ed ucraini che siamo riusciti a sentire in questi giorni. Sono loro per primi ad abolire la parola “sconfitta” dal vocabolario della pace perché sanno che essa non si otterrà quando un esercito verrà battuto ma quando non esisteranno più eserciti. Per questo è indispensabile un cambiamento di rotta e di mentalità.
Noi siamo impastati di violenza e spesso di ignoranza rispetto alle vere ragioni dei conflitti che mietono vittime innocenti nel mondo e non solo in Ucraina.
Non solo dobbiamo pregare per il popolo ucraino ma anche per il popolo russo, per le migliaia di persone incarcerate per aver espresso il loro dissenso alla guerra. Pochi giorni fa una attivista russa che abbiamo ascoltato da Mosca in dialogo con un’attivista ucraino da Kiev, dopo l’incontro è stata arrestata e non abbiamo più notizie di lei.
In quell’incontro ci ha detto: “ho paura di parlare, non vorrei essere messa in carcere, però il popolo ucraino ha più paura di me sotto le bombe e quindi parlo”.
Queste persone insieme ad altre migliaia non stanno chiedendo armi ma sostegno alla gente, ai movimenti nonviolenti, alle azioni della società civile che chiedano una pace fondata sulla giustizia e non costruita sulle macerie.
Come disse Martin Luther King: “la scelta non è tra nonviolenza e violenza ma tra nonviolenza e non esistenza. Se non riusciremo a vivere come fratelli moriremo tutti come stolti”.