Quel che ci manca

Sono ormai giunta agli sgoccioli della mia esperienza in uno dei progetti di Operazione Colomba: ancora pochi giorni e farò ritorno in Italia. La famiglia, gli amici, i conoscenti stretti con cui ho mantenuto i contatti indicano così il rientro: tornare alla “mia realtà”. A pensarci bene, in effetti, partire per tuffarsi in un contesto completamente diverso, vivendone tutti gli aspetti senza pause, in maniera totalizzante, può avere un impatto molto forte e, in alcuni momenti duri; il pensiero di tornare a casa, dove tutto è conosciuto e privo di eccessive incognite, può portare un poco di sicurezza.

Eppure percepisco una nota stonata in questa definizione, qualcosa che mi disturba. Mi chiedo allora: qual è la “mia” realtà?
Non è forse quella che sto vivendo proprio qui, proprio adesso? E non porterò forse con me, impressi in cuore-testa-pancia tutti questi momenti, questa realtà che ora è anche “mia”? Non sono qui, del resto, per assumermi, come essere umano e cittadina di un mondo-rotondo, una fetta di responsabilità per contrastare le ingiustizie che affliggono il pianeta?
Eh sì, perché la realtà di un mondo globalizzato non può che essere esperita in tutta la sua complessità ed io, quando decisi di partire, sentivo il bisogno di trovare un esempio di resistenza alle brutture di un’umanità, quella contemporanea, che sembra aver reciso il cordone ombelicale con la Natura, barattandola con una fittizia dimensione virtuale e consumista, chiaramente insostenibile nel tempo.

Di certo c’è che, affinché questo squilibrato ordine si mantenga, milioni di persone vivono in condizioni di povertà, al centro di conflitti di cui ormai non si ricorda l’inizio e non si vede la fine.
Questa è la situazione che si vive in Colombia, Patria di uno dei miei scrittori preferiti, Gabriel Garcia Marquez.
Proprio lui, fine conoscitore degli angoli più reconditi dell’animo umano, riassunse in una frase, scarna ed essenziale, una verità assoluta, che oggi mi sembra di poter capire meglio.
Non immaginava che era più facile cominciare una guerra che finirla”: così descrive la cecità visionaria di uno dei protagonisti del suo romanzo più famoso (“Cent’anni di solitudine”), riferendosi al conflitto colombiano, che si è esteso nell’arco di più di settant’anni, mutando le sue motivazioni politiche nelle logiche del narcotraffico e dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali.
Solo le vittime non sono cambiate: i civili, in balia del fuoco incrociato tra aguzzini di ogni fazione, illegale o meno, hanno  pagato il prezzo più alto.

Altrettanto certo è che, in un simile contesto nel quale molteplici generazioni sono nate, cresciute e vissute senza soluzione di continuità, ancor più fulgido appare l’esempio della Comunità di Pace, che è riuscita ad affrontare ogni tipo di barbarie, perpetrate senza sosta da tutti gli attori armati presenti sul territorio dalla sua fondazione nel 1997, mantenendosi ferma sulle posizioni di totale pacifismo e neutralità.

Sono gli ultimi giorni, quindi, e godiamo della preziosa compagnia dei membri della Comunità, specie quelli più anziani, che sono fibra viva della memoria, custodi di una storia, personale e collettiva, e della Storia, che troppo spesso confonde vinti e vincitori.
Colgo l’occasione, con gli altri volontari presenti, di visitare una delle fondatrici di San Josecito.
Tra una chiacchiera e l’altra, le chiediamo quale sia la motivazione per cui questa nazione, quest’umanità, non trova requie. La sua risposta, così semplice da far male, racchiude una spiegazione che è universale, senza distinzioni di “realtà”. Ci guarda, sorride, e dice: “Quel che ci manca è l’Amore”.