Semi

“Hanno provato a seppellirci, non sapevano che eravamo semi”.
Questo motto è divenuto, in America Latina, una vera e propria bandiera, portata durante proteste e manifestazioni.
Dal Messico dove fu coniata e gridata dalle madri in cerca dei loro figli “desaparecidos”, alle strade del Cile durante le proteste giovanili, fino ancora alle piazze dove, instancabili, cercano giustizia i leader sociali e i difensori dell’ambiente: queste parole arrivano dentro e spaccano la crosta della nostra apatia.
Con questa frase potente, posso descrivere e fare sintesi di ciò che è stato trasmesso durante il VII Foro Internazionale della Nonviolenza nel Quindio. Decine di invitati, tra cui alcune persone della Comunità di Pace di San José di Apartadò, hanno raccontato cosa significa resistere nel territorio martoriato da guerre e interessi economici.
Le testimonianze scorrevano fluide, ma piene di emozioni, paure e speranze… anche lacrime.
Molti di coloro che hanno parlato della loro storia e vita sono minacciati, perseguitati; alcuni sono stati costretti a lasciare il proprio Paese per non essere uccisi.

La loro “colpa”, come sempre, è quella di dire la verità rispetto ai progetti mortiferi di multinazionali e imprese che riducono a brandelli le comunità contadine poco organizzate ed escogitano mille strategie per trarre in inganno quelle resistenti e resilienti.
Progetti così detti di “sviluppo” che vorrebbero soppiantare secoli di cultura e coltura, relegandoli come superflui e poco produttivi, per vendere i loro di progetti, moderni e proficui solo per le tasche dei ricchi.
“La gente trasformata in lavoro e la natura trasformata in risorse porta allo sterminio” ha detto qualcuno dei testimoni.
Le grandi imprese violentano la relazione che dovrebbe esistere tra l’uomo e la natura, relazione che per i popoli nativi è sacra.
Per questo, sono proprio loro in Colombia, in Cile, in Messico e in altre parte dell’America Latina, a farsi carico di gran parte della lotta contro chi vuole distruggere questo legame in nome del profitto.
Non solo i popoli nativi, ma anche molti agricoltori e giovani che vivono nelle periferie delle grandi città, anche loro sono disposti a lottare per il diritto al proprio territorio grande o piccolo che sia; così come anche la popolazione urbana vuole rivendicare il proprio diritto all’agricoltura per rafforzare il tessuto sociale e comunitario.
Una lotta per non far morire lo spirito collettivo del bene comune, del pane impastato insieme, a partire dal seme gettato sino al frumento raccolto e macinato.
Il profumo del cibo, come quello della lotta che ti entra dalle narici e alimenta anima e corpo, si è trasformato, nelle esperienze ascoltate, in azioni di rivoluzione.
Cucine comunitarie e orti comunitari ai margini delle città o nelle favelas; pasti letteralmente lanciati ai passeggeri dei treni della speranza (o della morte) con cui migliaia di migranti cercano di passare la frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti; strategie e difesa delle risorse idriche negli altopiani o nelle aree più desertiche, per evitare lo sfollamento di miglia di persone; e ancora, semi e semi nativi, non ibridi, non manipolati geneticamente, semi difesi come la stessa vita, perché essi sono la Vita.
“I semi sono la rivoluzione, sono le nostre armi, per farci territorio, per farci alimento” hanno detto.
Testimoni tutti di solidarietà, di creatività, disposti a sacrifici immensi per salvare l’ambiente, mentre le imprese, come avvoltoi, li circondano e aspettano un passo falso, un cedimento per entrare e distruggere.
Lo sappiamo già bene tutti che queste multinazionali sono targate Europa, Canada, Stati Uniti…
Lo sappiamo mentre facciamo benzina, carichiamo il cellulare, mangiamo ananas e sorseggiamo caffè…
Forse allora dovremmo sforzarci di più ad assumere che la lotta deve essere dei popoli e insieme rifiutare le politiche oppressive che distruggono ambiente e territori.
“I territori sono molto più di un pezzo di terra, essi vanno custoditi e protetti” perché da essi dipende la salvezza di tutta l’umanità.
Lo vediamo ogni giorno attraverso il dolore di chi fugge a causa del cambiamento climatico, dovuto spesso all’abuso che l’uomo fa delle risorse e alle violazioni che commette per accaparrarsi potere e denaro.
Tutti questi uomini e donne, tutti quelli a noi sconosciuti, insieme a coloro che sono stati assassinati per difendere il territorio e l’ambiente, sono “i nostri buoni maestri che ci indicano la via per imparare, per riflettere, per sognare”.
Sarebbe bello unirsi già alla loro lotta, con la stessa forza.
Agire oggi senza aspettare il giorno, forse non poi così lontano, nel quale anche in Europa saremmo “costretti” a farlo e a gridare: “Hanno provato a seppellirci, non sapevano che eravamo semi”.

M.