E' tutto vero

Libano/Siria - (Foto di Mattia Civico)

Le luci della notte scorrono dal finestrino dell’autobus che ci sta portando verso Beirut.
Scorrono le immagini di questa terra strana, a volte ostile.
Le case semidistrutte per incuria e povertà e quelle dai muri come formaggio groviera, i segni della guerra.
E poi le luci multicolori stile Las Vegas, un contrasto che stride.

Nell’aria l’odore delle spezie e del kebab. L’odore inconfondibile del Medio Oriente, forse l’unica cosa che qui accomuna tutti, vincitori e vinti, cristiani, ebrei e musulmani… morti e vivi.
No, adesso che ci penso c’è anche il mare. Per tutti lo stesso mare. Anche per noi. Mediterrraneo.
Abbiamo visto il campo di Tel Abbas svuotarsi, tra grida disperate.
La tristezza di chi parte mischiata con quella di chi resta. Certo, diversa: il campo profughi uccide più di tutto la speranza. Per i fortunati che vanno via c’è una nuova vita. Sarà dura, ma si vede un futuro.
Nel pullman i bimbi – più della metà dei profughi ha meno di 10 anni – ridono, scherzano, ballano. “Ana mabsoot” mi dice Karima. Sono felice.
L’autista mette una canzone. La musica è triste, delle parole non comprendo quasi nulla. Solo Siria, Siria.
Seduto al mio fianco Abu (Papà di) Akram si asciuga le lacrime con il dorso della mano. Vicino a lui sua moglie Umm (Mamma di) Akram singhiozza. Mi giro sui sedili dietro e nessuno parla. Tutti gli adulti piangono silenziosamente. In fondo i bimbi continuano a giocare.
Abu Akram è il capostipite della famiglia. Lui e Umm Akram hanno avuto 10 figli, 5 maschi e 5 femmine. Qualcuno è qui con loro. Gli altri chissà dove. Mi sento testimone invadente della sofferenza di questo anziano dalla barba e dai capelli bianchi che ci ha sempre accolto con sorrisi colmi di affetto nella sua tenda. Penso che dovrebbe solo starsene in pace nella sua casa in Siria a vedere crescere i suoi nipotini e non dormire per terra nell’umidità di un campo rifugiati per quattro anni per poi finire in una cultura, un clima e una lingua tanto diversi dalla sua.
Provo un senso di disagio… si è vero -  è tutto vero - questa era ed è la cosa giusta da fare, avranno la possibilità di essere accolti in Italia, di avere una vita degna… ma in cuor mio lo so, e lo sanno anche loro, che non vedranno mai più la Siria.
Anche le mie lacrime scendono e annebbiano tutto e sento la loro dignitosa superiorità… “quella superiorità che una storia maledetta conferisce alle sue vittime”.
La nipotina di Abu Akram ha meno di un mese, e un giorno quando – se tutto va come deve – sarà italiana e parlerà italiano, forse qualcuno le racconterà di questa notte. Forse qualcuno le dirà di quanto erano belli i tramonti su Homs e di dove sono le sue radici. Ma la memoria è labile e troppo spesso l’istinto di sopravvivenza chiede di dimenticare. Provo angoscia nel pensare che è troppo piccola, non ricorderà il pianto di suo nonno e la ferita lacerante della diaspora del popolo siriano.
La perdita di storia e identità rase al suolo da una guerra che nessuno di loro voleva.
Fratelli, padri e figli sparsi per il mondo – in Siria, in Europa, in America – e molti non si rincontreranno mai più. Come si può accettare questa ingiustizia?
Come noi possiamo accettare questa ingiustizia senza perdere la nostra umanità?
Allora penso che sono fortunata. Perché mi indigno e la mia umanità freme. E perché queste persone stanno andando verso una vita senza guerra, il loro sogno.
In questi giorni ho visto tante volte la gratitudine per questo nei loro occhi. Shukran (grazie) Abu Tony, shukran Gennaro, Marwa, Marco, Sara e tutti i ragazzi di Operazione Colomba.
Grazie Operazione Colomba, anche da parte mia, per avermi dato la possibilità di sfiorare queste vite e di non rimanere sospesa nel limbo di chi fa finta di non vedere.
Grazie per essere sostanza e non apparenza.
Perché la libertà si impara da chi non ce l’ha.
Francesca