Una maschera non basta

Palestina/Israele

Venerdì 13 Aprile 2012

È venerdì, una mattina come tante altre e giorno di festa per il villaggio musulmano di At-Tuwani.

Sveglia alle 6:45 e alle 7:15 siamo già pronti a partire: io con altri due compagni.

Percorriamo la solita strada che ci conduce al villaggio di Tuba dove dobbiamo accompagnare al pascolo dei pastori con le loro greggi che quasi quotidianamente vengono minacciati e allontanati dai soldati da zone secondo loro vietate.

 


Il sentiero che scegliamo per arrivare al villaggio palestinese costeggia un'abitazione appartenente ai coloni dell'avamposto di Havat Ma´on di recente costruzione e da poco abitata. Alcuni degli ultimi attacchi subiti ai danni dei pastori palestinesi sono partiti proprio da quella casa. Ed è proprio da qui che dei cani sentendoci passare cominciano ad abbaiare e da quel momento è un susseguirsi di azioni velocissime: due uomini richiamati dall'ululato dei cani escono da quella casetta marrone, ci vedono, ci lanciamo un'occhiata, noi iniziamo a camminare con passo sostenuto, loro invece si sfilano le magliette di dosso e si coprono il volto. Da questo gesto possiamo solo immaginare le loro intenzioni.

Iniziano ad inseguirci e noi corriamo tra i sassi che diventano salti ad ostacoli. Mi giro e vedo quel ragazzo a volto coperto piegarsi e raccogliere sassi da terra. Noi prendiamo la telecamera e filmiamo ma i sassi arrivano come mine: fisicamente non ci colpiscono anche se ci arrivano molto vicini ma poi dentro di se´come se cadessero in un pozzo profondissimo, il rumore come il dolore lo si sente in un secondo momento. Rompono la barriera di sicurezza che ci si è costruiti.

Supplico al ragazzo di fermarsi ma la mia voce, che voleva essere un grido disperato, si fa piccola piccola inghiottita da quella pulsione violenta. Anche quel ragazzo è vittima di quella rabbia e lei, nascosta, si sta divertendo a muovergli le braccia come fosse una marionetta. La vedo come si prende gioco di noi.

Nasce l´interrogativo di come trovare il modo di tagliare quei fili attaccati a quel corpo che sembra posseduto, liberarlo o far in modo che lui stesso prenda coscienza e li recida. Sfortunatamente non c'è tempo per pensare. I due coloni ci arrivano molto vicini gridando di andare via dalle loro terre e noi non possiamo fare altro che correre. Dopo averci inseguito per metri decidono di fermarsi e di ritornare a casa permettendoci di prendere fiato. Cerchiamo di sdrammatizzare l´accaduto perché in quel momento non vogliamo e non possiamo farci vincere dalla paura.

Non ci sono pensieri. Vuoto.

Poi nella mia mente saltano fuori gli occhi di quel ragazzo: l´unica parte che forse avrebbe dovuto coprirsi. Quegli occhi che sono talmente iniettati di odio e di rabbia che come laser ti lacerano.

La condivisione è una parte importante per i volontari di Operazione Colomba ed essere stati bersagli dei coloni ci ha permesso di provare una piccola dose delle emozioni provate dai Palestinesi. Se immagino di vivere questa scena per 10, 100, 1000 e più volte come tante persone hanno vissuto qui mi domando: come ci si sente a subire questa situazione per anni? E sentirsi privati della propria libertà e della propria sicurezza? E avere paura?

Qualcuno può pensare che scappare per 1000 volte è segno di codardia.

Invece continuare a camminare per quella strada 1000 volte ancora significa scegliere di non farsi mangiare dalla paura, scegliere di rischiare e di resistere, per far sì che quella terra sia ancora di chi la percorre in pace.

El.