Le colombe e i rapporti con i militari israeliani

Palestina

In questo periodo sono stata qualche giorno anche a Tuwani, e non sono mancati gli incontri con i soldati.

Durante uno dei “discorsi” con loro e con il Security-Man della colonia (Ma’on), siamo pure stati accusati di antisemitismo in quanto viviamo con gli “arabi” e dunque siamo come loro. Quando ho risposto che viviamo anche a Gerusalemme Ovest, sono rimasti tutti senza parole.

Poi il Security-Man mi ha ricordato che il 76% di “quella gente” (indicando il villaggio di Tuwani) ha votato Hamas, e che Hamas vuole distruggere Israele.

Io ho semplicemente riportato una frase di Hafez (di Tuwani), come risposta: “Qui nessun partito politico ci ha mai aiutato, né Hamas né Fatah. Quindi non vogliamo essere immischiati nelle loro stupide lotte fratricide. La cosa più difficile è proprio convincere la gente a non affiliarsi a queste correnti, ma lottare insieme per i reali interessi.”    ... e il Security-Man non sapeva che rispondere.

Poi un soldato mi ha chiesto “Ma tu non credi che uno stato abbia il diritto di difendersi dai nemici?” ed io “Certo, sulle frontiere. Ma qui non siamo sulla frontiera. Qui siete a casa di altre persone.”

Poi gli ho chiesto se avevano mai capito il perché vengono spostati da una base militare ad un’altra ogni 3 o 4 settimane. Non è una strategia solo dell’esercito di Israele, ma di tutte le forze armate di tutti i paesi del mondo: bisogna evitare che si creino rapporti di conoscenza o fiducia tra i soldati e la popolazione da loro controllata. Così  ogni persona che incontreranno sarà per loro un pericolo, un terrorista. Per esempio, se ci fosse una rivoluzione nel Nord del Brasile, manderebbero i soldati cresciuti al Sud a reprimerla (e viceversa); oppure dei mercenari ancora più affidabili, non coinvolti emotivamente… senza correre il rischio, dunque, di ammutinamenti vari.

Per questo motivo i soldati che incontriamo qui a Tuwani si vedono per qualche settimana e basta. Poi ne arrivano altri, che non sanno chi sei, cosa fai, dove e come devono accompagnare i bambini, quale tipo di coloni vivono a Ma’on (se religiosi o laici), se violenti o meno…

L., 15 febbraio 2007

 


Ad At Tuwani in questo periodo uno dei segni dell'occupazione piu' evidente sono i check point quasi quotidiani che i soldati improvvisano all'ingresso del villaggio, fermando macchine palestinesi e controllando persone, carte d'identita', bagaglio..ecc. Questi controlli a volte  si protraggono per ore.

I soldati dei Chek point sono ragazzi di un eta' intorno ai 20 anni, spesso piu' giovani di noi volontari. Alcuni di noi cercano il dialogo per capire cosa pensano e come vivono il loro servizio in divisa. Alcuni di loro, pochi,  si rifiutano di parlare magari dicendo che non parlano bene inglese, ma poi ci chiedono in inglese da dove veniamo e che facciamo qui.

Alcuni soldati in inglese sanno dire solo Merry Chrismas come un soldato che ce lo ha ripetuto per diverse volte, nonostante il Natale fosse passato da un pezzo.

La maggior parte raccontano di essere orgogliosi di difendere Israele da coloro che ne minacciano l'esistenza. Ma la mia percezione e' che qui il "pericolo da cui Israele si difende" non abbia una veste precisa e per questo la definizione si amplifica.

Con un soldato con cui abbiamo cercato di andare oltre, chiedendogli chi era "il nemico",  ci siamo stupiti di essere inclusi nell'elenco. Alcuni di questi  giovani  pensano che Israele, "unico Paese democratico in Medio Oriente" sia stato lasciato sempre solo a difendersi nel panorama mondiale.

Uno di questi soldati a cui abbiamo chiesto cosa pensava dell'occupazione di Israele in questi territori, ci ha detto che la terra " palestinese" era loro e c'e' voluto un po' per capire che si rifaceva alle Sacre Scritture.

Sovente ci dicono che nel nostro Paese ci sono problemi e di occuparci di quelli, invece di venire in Cisgiordania. Con i volontari americani e inglesi del Christian PeaceMaker Team con cui siamo qui, sono anche piu' precisi e parlano dell'Iraq e dell'occupazione americana. Nel team in questo periodo c'era Art Gish, che ha la moglie volontaria nel CPT nel Kurdistan  Iraqueno e lui stesso la raggiungera' a breve. In un occasione in cui Art ha raccontato a un soldato che stava per andare in Iraq, il soldato gli ha risposto: "credo che per te non ci sia speranza". E invece io penso che sia proprio l'atto concreto di partire e il voler condividere la sofferenza e la vita di chi e' oppresso, mettendo in gioco se stessi in prima persona, a generare speranza.

Noi colombe sovente abbiamo raccontato ai soldati della Comunita' e del fatto che ognuno di noi, quando rientra in Italia, continua una attivita' di condivisione e volontariato e che una cosa non esclude l'altra. Ripetiamo che noi non siamo qui solo per i palestinesi, ma anche per loro, per gli israeliani e che siamo "neutrali verso le parti, ma non verso le ingiustizie".

L'altro ieri, il 29 gennaio con un soldato che ci considerava "dall'altra parte" gli abbiamo raccontato che quest'estate durante la guerra tra Israele e Libano alcuni di noi sono andati al nord.

Allora lui ha detto "Si, sarete andati in Libano !" e noi gli abbiamo raccontato che "No, non eravamo in Libano, ma siamo andati a nord di Israele, quando le sirene di allarme suonavano ancora , a Nazareth e ad Haifa e saremmo andati ancora piu' a nord se fosse stato possibile". Abbiamo raccontato che ad Haifa siamo andati a visitare i soldati israeliani feriti sul fronte. Questo lo ha sorpreso, e ha cominciato a parlare di un libro su quella guerra che secondo lui era bene che leggessimo. Io gli ho parlato di Amos Oz e del libro "Contro il fanatismo". Ogni tanto ho la sensazione che si aprano piccole brecce nel muro che ci separa.

Una delle  difficolta' piu' grandi qui per i volontari sta' secondo me nel mantenersi "neutrali", perche' viviamo e respiriamo l'occupazione del popolo palestinese e a volte si ha la tentazione di dividere le persone in  "buoni e cattivi" secondo schemi  preconfezionati.

Qualcuno dei volontari OD e CPT non ama parlare con i soldati, perche' mi han detto che il rischio e' di "mostrasi amichevoli" e di avallare cosi' gli autori di questa occupazione. Io invece credo nel dialogo, quello che insinua dubbi, che non schematizza e non porta verita' assolute. Credo nella  condivisione dei pensieri e del sentire che non necessariamente trova tutti concordi ma che aiuta a capire gli altri e a far capire noi stessi.

Il vero contrario dell'Amore non è l'Odio, ma l'Indifferenza. J. Fletcher

Pensando a cosa accadeva nei Territori Occupati, nel 1988  lo scrittore Abraham Yehoshua dichiaro' al Newsweek che, vedendo tanti "israeliani rifiutarsi di leggere il giornale e di ascoltare le notizie alla televisione", aveva finalmente capito come avessero fatto milioni di tedeschi ad affermare di non aver saputo niente dell'Olocausto".

"E' cosi' facile  chiudere gli occhi di fronte ad avvenimenti che succedono a dieci km di distanza" aggiunse. Poi disse "nel nostro inconscio collettivo ed individuale noi rechiamo impresse, che lo si voglia o meno, le immagini della seconda Guerra Mondiale (l'Olocausto non consistette solamente nelle camere a gas, ma fu uno spaventoso sistema di umiliazione e di maltrattamento degli esseri umani, dei vecchi, delle donne e dei bambini). Sono quelle le immagini fondamentali con cui siamo cresciuti che se sono radicate nel profondo dell'anima".

Quando ho tempo leggo "Il settimo Milione" dello scrittore israeliano Tom Segev. In questo libro viene descritto come la Shoah ha condizionato la storia del Popolo di Israele da prima della nascita dello Stato ad ora.

Quel libro mi aiuta a capire perche' i giovani israeliani, come i soldati che incontriamo, siano diffidenti verso il resto del mondo e nello stesso tempo mi fa chiedere se e' possibile che ancora una volta la violenza subita, entri in un circolo vizioso in cui viene riciclata e in qualche modo restituita a dosi piu' o meno piccole, come accade qui nei Territori Occupati.

E penso che nella formazione dei soldati e dei giovani israeliani c'e' anche la visita di Yad Vashem, il Memoriale della Shoah, e che molti di loro hanno avuto nonni e parenti nei campi di concentramento e che anche chi non ha vissuto direttamente lo sterminio, lo ha fatto suo nel racconto degli altri.

Io cerco di ricordarmi le sue parole ogni volta che sono testimone diretta o indiretta dei soprusi dei soldati e dei coloni. Cerco di ricordarmi che non sono qui per condannare e giudicare, ma per "costruire ponti". Mi sforzo di vedere dietro la divisa la persona e la sua storia .

E mi capita di chiedermi se anche i figli di Khifa e Nasser, la famiglia palestinese che abita vicino a noi, che ora sono piccoli, da grandi impareranno a parlare di nemici e di "necessita'” di difesa. Poi mi rendo conto che qui a Tuwani la gente crede nella pace e nella resistenza nonviolenta e che i bambini forse per questo impareranno a non avere paura e ad amare gli altri.

Poiché non tutto si mostra immediatamente, abbiamo il dovere di metterci sempre in viaggio, di scendere nel buio dei problemi per poi risalire alla luce. B. Bodei

A., 29 Gennaio 2007