Andando in Israele

Palestina/Israele

E' quasi uno shock passare dal deserto che vive con una dignitosa semplicità alla città metropolitana che vive con la frenesia dell'occidente. Si passa in meno di un'ora dal mondo rurale e “arcaico” di At-Tuwani al mondo moderno e occidentale di Gerusalemme.
Come possono stare insieme questi due stili di vita così diversi?

Forse mi fa anche un po' arrabbiare: vorrei che non ci fosse nessun giudizio di merito in me ma una voce dentro di me dice “ecco da un lato i pastori vivono semplicemente rischiando di non avere acqua se non piove, soffrono l'occupazione, vivono sotto la minaccia di demolizioni e soprusi, conducono una vita dura e dall'altra parte i ristoranti sono pieni, si balla, si va nei pub la sera, si fa shopping in negozi alla moda e la vita sembra comoda e ricca” .
Come fanno a fregarsene così di quello che accade di là dal muro? Come fanno a chiudere gli occhi?
Queste domande mi restano nella testa mentre vivo le mie giornate di stacco a Gerusalemme e la verità della mia vita pian piano viene a galla. Io sono esattamente come loro. Ho bisogno di uno stacco in questo appartamento occidentale con la doccia e la lavatrice, con i ristoranti e pub e le strade con i negozi, perché qui io mi riposo.
E' vero che qui non ci sono emergenze continue ma è vero anche che questo posto assomiglia molto a casa mia: ha lo stesso stile e una cultura di fondo molto simile.
Sarà per questo forse che ci fa così arrabbiare vedere le contraddizioni in maniera chiara ed evidente. Qui non si scappa: c'è un muro che divide due mondi con diversi diritti, che non solo sono confinanti ma si toccano. E' facile giudicare in fretta tutti i cittadini di questa terra complici in un modo o nell'altro dell'operato del proprio Stato. Ma nel giudicare loro devo accettare di giudicare me stessa. C'è un detto africano che dice: quando il tuo indice indica qualcun'altro, ci sono tre dita rivolte verso di te.
Mi fa arrabbiare perché è evidente che questo conflitto ha a che fare con me e con lo stile di vita del mio Paese. Anche noi beviamo e mangiamo e balliamo e giochiamo mentre il nostro governo sceglie di respingere le navi di clandestini che muoiono nel mediterraneo. Anche noi vorremmo chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie che ha compiuto e che compie il nostro Paese nel mondo. Anche noi vorremmo solo vivere in pace la nostra vita senza preoccuparci del fatto che dietro a molte delle cose che fanno la nostra comodità c'è lo sfruttamento di qualcuno.
In cosa allora siamo diversi da queste persone?
Mi convinco sempre di più che abbiamo bisogno di lavorare con loro, perché se riusciremo ad aprire dei ponti di speranza e di giustizia qui, allora significa che c'è speranza anche per noi. Se invece li condanniamo inchiodandoli ai loro limiti e ai loro errori, dobbiamo accettare che sia fatto altrettanto anche con noi. Non mi posso allora lamentare se mi diranno che in quanto italiana “ho bevuto il loro sangue”, né mi posso lamentare che, sempre perché italiana, mi considerino fascista e berlusconiana.
Allora provo ad avvicinarmi alla parte israeliana come ci si avvicina ad un fratello, a cui si vuole bene, ma che si disapprova. Provo ad ascoltare cosa c'è dentro questi simili che li tiene strettamente legati a circuiti di violenza e di morte.

Le persone che incontriamo hanno molto voglia di parlare. Si aggrappano a qualunque pretesto per raccontare vissuti di guerra e di sofferenza. In un negozio del centro una signora ci racconta della bomba che scoppiò in un attentato vicino al suo negozio e di chi è morto e di tutti i sistemi di sicurezza che adesso sono stati attivati. Da lì partono i ricordi della guerra durante la sua infanzia, quando suo padre scavò una fossa in giardino per potersi riparare dalle bombe e di come morì l'albero di limoni perché le sue radici erano state recise.
Poi incontriamo un ragazzo giovane che ha finito da poco il servizio militare. Sogna di aprire un caffè a Gerusalemme con vari tipi di cialde, per ingrandire l'attività che anni prima ha fondato suo padre. Ci racconta di sua sorella che era a Gaza durante l'operazione Colonna di Nuvola. Dice che è tornata a casa e fa finta che tutto vada bene, ma in realtà probabilmente sta facendo molta fatica. Io gli chiedo se ci sono degli strumenti che aiutano questi ragazzi a rielaborare le violenze che vivono e vedono durante il servizio militare. La sua risposta mi inquieta. Mi dice che non ci sono, ma che tutta la società israeliana è abituata a vivere nella guerra e c'è una solidarietà di fondo che aiuta tutti ad andare avanti.
Io capisco che il dolore e la guerra sono parte dell'identità di questa nazione. E capisco anche che stiamo parlando due linguaggi diversi. Io gli ho chiesto come si può superare la violenza, come si può rielaborare il vissuto per andare avanti, per fare un passo verso un futuro diverso... lui mi dice, che è cosi, è sarà sempre così. Dice che senza l'esercito il suo Paese non esisterebbe perché lo spazzerebbero via.
Io vorrei dire tante cose. Vorrei dire che un mondo diverso è davvero possibile perché l'ho visto.
Vorrei dire che abbiamo sempre la possibilità di scegliere, che non ci sono scelte obbligate e che si può dire di no. Vorrei dire che la violenza porta sempre e solo altra violenza... ma non è facile parlare. Vorrei anche dire che non ci sarà mai la pace senza la giustizia, perché gli oppressi non ci lasceranno dormire. Ma per ora scelgo di stare in ascolto. Lui conosce il nostro lavoro qui, ed è anche venuto a trovarci. Le ferite hanno bisogno di tempo per guarire e rimarginarsi e anche le nostre idee hanno bisogno di tempo per modificarsi.
Andiamo poi a visitare un centro di volontariato dove distribuiscono prodotti a costi molto bassi alle famiglie povere del quartiere. Ci accoglie un ragazza giovane molto carina, stupita del nostro interesse. Mentre culla la sua primogenita tra le braccia, ci spiega come funziona il centro e si sente che crede davvero in quello che fa. Studia infermieristica e lavora tutti i giorni a contatto con gli arabi, che sono sia pazienti che colleghi. Ci chiede come è stato stare qui durante la guerra di Gaza e anche lei inizia a parlarci del suo dolore. Ci dice che quest'ultima guerra ha rotto le sue speranze, che non crede più ci sia qualcuno con cui parlare. Dice che le dispiace molto per gli arabi che sono morti ma la colpa principale è dei loro politici che li portano al massacro, perché l'esercito veramente cerca solo di colpire i responsabili e non i civili. Anche suo marito è nell'esercito...
Noi stiamo in silenzio ad ascoltare mentre lei ci confida la frustrazione di non poter mai vivere in pace sereni e al sicuro, sapendo che da un momento all'altro potrebbe sempre esserci una guerra o un attacco. Ci chiede perché stiamo zitti, forse non condividiamo quello che dice?
Le rispondiamo solo che noi siamo contro ogni violenza e che non ci permettiamo di sparare sentenze. Siamo qui da poco e prima di tutto rispettiamo il dolore degli altri.
Anche a lei vorrei dire tante cose. Vorrei dire che ci sono tante persone con cui parlare, che ci sono tante ingiustizie compiute dal suo esercito, che la pace sarà minacciata fintanto che non si smetterà di violare i diritti umani, che le armi e l'esercito non sono il solo mezzo che Israele ha per rapportarsi ai suoi vicini di casa e che sicuramente non è un mezzo efficace. Ma anche stavolta le parole mi rimangono dentro, le coltiverò sperando di farle maturare per il momento giusto.
Poi le chiediamo di dove sia la sua famiglia: Germania e Polonia. E in due parole ha raccontato un mondo intero. Un passato pesante che sicuramente le pesa sulle spalle e sul futuro, una ferita in cui inciampano le sue speranze. Come italiani e come europei siamo responsabili di quello che la sua famiglia ha dovuto passare e non possiamo fare finta di nulla, limitandoci a dispensare pillole di verità e buonsenso. Penso che il suo passato si porti con sé sentimenti forti di sfiducia che difficilmente si cancellano con la logica e la ragione. Forse è un po' come stare con chi soffre di attacchi di panico per cui non importa se il pericolo sia immediato e reale, perché la percezione di angoscia e il dolore sono comunque reali. E in quel caso non servirà a nulla ragionare sul piano della razionalità perché il dolore lavora soprattutto a livello affettivo.
Immagino che lei possa pensare che “quello che è successo ai tuoi nonni è così terribile che non deve accadere mai più a te e alla tua famiglia”. Capisco che voglia vivere in un posto che sente come casa sua e da dove nessuno la potrà deportare e scacciare via. Capisco che desideri una casa dove sentirsi uguale agli altri non discriminata e stigmatizzata. La capisco, ma so che questi desideri possono anche essere pericolosi se diventano così totalizzanti da escludere l'altro.

Mi chiedo quale possa essere il nostro ruolo qui e mi piacerebbe che fosse quello di portare speranza: la speranza che il circolo del male possa finire e non debba per forza perpetrarsi all'infinito con un ciclico scambio di ruoli.
Mi piacerebbe che si potesse fare insieme un passo in avanti e riuscire a dire che quello che è successo è così brutto che non deve più accadere a nessuno. Mi piacerebbe che insieme pretendessimo per gli altri le stesse cose che giustamente pretendiamo per noi stessi: diritto alla casa, alla dignità, alla sicurezza e alla pace.
Penso spesso alle parole di Nelson Mandela in questo periodo e mi dico che basta un cambio di prospettiva per salvaguardare la vita, la speranza e il futuro. Cosa sarebbe successo se invece di dire “non dovrà accadere mai più in questo meraviglioso paese l'oppressione dell'uomo sull'uomo” avesse detto l'oppressione dei bianchi sui neri”?
Credo che quello che è accaduto una volta, che sia buono o che sia male, possa accadere ancora, ma per fortuna siamo noi stessi a poter guidare gli eventi con la nostra volontà e con la nostra determinazione. Come dice il leader della resistenza nonviolenta di At-Tuwani, bisogna avere avere speranza nel futuro ma sopratutto lavorare sodo per questo!
A partire da noi stessi, aggiungo io.

Agne