I profumi ed i sapori dell'occupazione militare

Palestina

Fermo ad un posto di blocco volante all’ingresso del villaggio di Tuwani, l’altra sera, mentre l’aria fresca e umida mi penetrava i vestiti raggiungendo la pelle, facendomi tremare un poco e mentre una leggera ma costante brezza mi avvolgeva portandomi un profumo di campagna, la mia mente ha fatto uno strano collegamento portandomi via di lì con il pensiero e facendomi ricordare in modo forte la festa dei popoli di Cassano d’Adda, non so perché, ed altre feste popolari di inizio estate, dove lo stesso fresco e profumo di campagna umida si accompagnava a buona musica e pessima birra in serate spensierate con gli amici. Volentieri mi sono lasciato portar via di lì per alcuni istanti. Non è stato il primo pensiero forte del genere di questi giorni.
Altri sono stati guidati dai pomeriggi sotto il sole fortissimo, il profumo della crema solare e dei raggi che scaldano la pelle mi hanno spesso riportato alle lunghe estati da bagnino passate ad oziare per pomeriggi interi sul bordo della piscina, a chiacchierare ed a sorridere alle ragazze, l’odore fortissimo della legna della stufa della nostra baracca sui vestiti, lo stesso delle grigliate in campagna, il profumo dell’erba bagnata e dei sentieri infangati come nelle gite in montagna e poi il vento sempre forte che mentre passi vicino al bosco fuori dal villaggio ti sbatte addosso il profumo dei pini marittimi e a volte anche del mare e mi riporta a tante vacanze. All’inizio sono sempre sensazioni piacevoli, poi una piccola angoscia ti prende: “No! Il conflitto non può entrare nei miei bei ricordi, non può prenderseli, sono miei!”. Quando il conflitto cerca di penetrare nella tua storia, di farsi spazio in te, di prendersi le cose più belle, ti arrabbi con tutti. Perché il conflitto è così, corrode ciò che c’è di più bello, soprattutto le relazioni. Poi una piccola consolazione. Lui non ha il tempo di legarsi a certi profumi e sapori in modo così forte da divorarli in chi fa brevi viaggi come me. Il sollievo dura poco perché pensi a chi del conflitto e dell’occupazione militare è sempre vissuto e di come può essere l’esistenza di chi è nato e cresciuto qui e non conosce altro che questo posto e questa vita… capisci allora di avere una fortuna incredibile, una fortuna che a volte qui ti da fastidio, a volte tanto che non vorresti mai averla provata, tanto ti senti privilegiato, o forse perché sai che una fortuna incredibile comporta una responsabilità incredibile…

Stessi profumi, ma significati tanto diversi. I bambini di qui devono temere il profumo dei pini, lì costruiscono le baracche i coloni israeliani ultra-nazionalisti, e se sentono quel profumo significa che sono troppo vicini e sono in pericolo.

Come per A., figlio di S., palestinesi dell’area, il fresco ed il profumo di campagna dell’altra sera non richiamava nessuna festa. A., 24 anni, ha un’intelligenza che gli permette di comunicare meno con le parole, ma molto più con il sorriso e lo sguardo, ma vaglielo a comunicare ai ragazzi in divisa al posto di blocco giù all’ingresso di Tuwani, schiacciati anche loro da un sistema che vuole che lo arrestino perché il suo nome non è nel loro computer che registra ogni palestinese, il non sapere perché, li manda in confusione, anche se A., allontanato dal padre, è pietrificato dalla paura e non riesce a dire neanche una parola. “We are sorry, but it’s our job”, controllare che la gente che passa tra Yatta e Tuwani non sia collegata con il “terrore”, così ci dicono. A. è terrorizzato.
Prima che manifestassero l’intenzione di portarlo via S. era tranquillo, “succede sempre così, faranno le loro telefonate e tra un’ora o un’ora e mezza ci lasceranno andare”, per un errore nel passaggio di informazioni tra autorità palestinese ed esercito israeliano la carta d’identità di A. non risulta valida per i militari. A. dovrebbe averne una nuova ma per farsela fare dovrebbe andare a Ramallah, ma senza documenti validi a Ramallah non ci può arrivare, ci sono almeno due posti di blocco che non supererebbe mai. Chiaro, no? S. ci confida che però quando A. lavorava in Israele in una fabbrica di automobili non è mai stato trattenuto per più di cinque minuti.
S. non può fare niente solo raccomandare ai giovani militari: “trattatelo con cura, lui ha un handicap mentale”. “Alla stazione di polizia faranno i dovuti approfondimenti e poi se tutto sarà ok lo lasceranno andare”. Da solo nella stazione di polizia di Hebron, di notte (S. non può entrare nella stazione di polizia israeliana in territorio palestinese), erano quasi le 22.30 quando questo accadeva e dalle 18.30 qui è buio. Io e Ilse eravamo lì dalle 19.30 circa chiacchierando con tutti, con due soldati in particolare, cercando di rendere un po’ più umano quel momento, ad un certo punto abbiamo anche telefonato ad Hiedi che è scesa da casa nostra con tè per tutti. Chissà se quei due soldati sono rimasti con noi a sorseggiare tè caldo dal bicchiere di vetro solo perché dovevano sorvegliare A. o magari anche perché faceva loro piacere fermarsi con noi. E chissà in che schizofrenia devono vivere anche loro, ordini dall’alto ed umanità dal basso. Finiti tè e sigaretta si rientra nel ruolo e accompagnano A. nel retro della loro jeep e partono.
S. ci accompagna con la sua macchina fino ad Hebron, mezz’ora sulla strada riservata a coloni e militari israeliani. Cinque minuti prima di arrivare S. riceve una telefonata in ebraico dalla stazione di polizia, l’ufficiale dice che non riesce a trattare con A. e con il suo modo di rispondere alle domande, viene rilasciato appena arriviamo. L’uomo che accompagna A. alla porta dice a S. che dovrebbe provvedere ad una nuova carta d’identità per il figlio, S. più di venti volte è venuto alla polizia e l’ha richiesta, l’uomo dice che si vede che è necessario che le richieda cento volte. Le nostre obiezioni lo fanno chiudere come un riccio ed urlare che sia lui sia i soldati hanno solo agito secondo la legge e poi l’hanno rilasciato subito, no? Saliti sulla macchina per tornare a Tuwani, A. sembra davvero contento, Ilse è così frustrata ed arrabbiata che le viene da piangere, io sono meno sensibile e sento adesso di colpo le quasi sette ore della giornata passate con i pastori sotto un sole che è come un martello sulla testa e che mi ha scottato persino il dorso delle mani, ma rifletto su come la violenza di un conflitto si scatena sempre, inevitabilmente, sugli indifesi.
Verso mezzanotte andiamo a dormire, buonanotte.