Vecchie memorie

Palestina/Israele

Quante volte nel corso delle nostre esperienze riusciamo a sentirci veramente a casa? Cosa fa sbocciare in noi quel senso di umanità e vicinanza che ci porta ad abitare ogni contesto? Mi sono posto diverse volte queste domande nel corso di questo nostro peregrinare nel sud di Israele, in un kibbutz Israeliano a meno di un chilometro da quel buco nero che è diventata la Striscia di Gaza.

Da quel buco nero che hanno fatto diventare la Striscia di Gaza anni di embargo e solitudine.
Il sole splende forte oggi, illumina volti e sorrisi della gente comune, siamo nel sud di Israele, ma potremmo essere ovunque.
Oggi alla scuola materna una madre si prende cura di sua figlia, nello sguardo orgoglioso si riesce a scorgere un lieve senso si apprensione per il suo futuro. Non c'è rabbia nei suoi gesti, solo amore.
Eyal parla con la voce sincera di chi ha bisogno di comunicare la sua verità, parla di come il complesso scolastico a Nachal Oz sia stato rivestito e rinforzato con materiali in grado di resistere ai missili Katiuscia dei miliziani palestinesi. Forse.
Il tetto sotto cui ci troviamo non ha mai avuto l'occasione per essere testato, e in ogni caso avrebbe al massimo sette secondi per prepararsi all'impatto dal primo momento in cui i razzi vengono sparati.

Nel cortile giocano bambini, alcuni gattonano, altri muovono i primi passi. Non riesco a togliermi dalla mente queste immagini, che sono immagini di quotidianità, di vita vissuta. Sono memorie.

Ognuno di questi bambini che ho davanti in questo momento è dovuto fuggire nel corso dell'ultimo assedio a Gaza, ogni famiglia ha portato il proprio futuro prossimo lontano dai rumori delle bombe Israeliane e dei missili di Hamas. Hanno preso vestiti e affetti personali a sono andati via. In fuga. Nessuno di questi bambini ha responsabilità per questo conflitto, mi sento piccolo davanti a loro, mi sento piccolo davanti a chi soffre su entrambi i fronti.
Ogni essere umano è forgiato dalla sua memoria, dal suo passato, dalla percezione del sé.

La mia mente torna sulla figura di esile ma forte donna che ho davanti, e le sue parole dipingono nuovi scenari ai miei occhi in ascolto. Ricorda di un tempo lontano, sprazzi di ricordi sfumati come la schiuma del mare. Un mare vicino. Il mare di Gaza city. Eyal ci racconta che prima dello scoppio della prima Intifada gli abitanti del kibbutz entravano spesso nella Striscia, varcavano quotidianamente un confine inesistente. Gli occhi chiari dell'Europa orientale, gli occhi della diaspora incontravano gli occhi scuri e mediterranei della Palestina, e non ne provavano paura.

Questo ritornello ritornerà spesso nei giorni al kibbutz: "Prima non era così, prima la gente si incontrava, si parlava, era una situazione diversa, avevamo degli scambi umani".
Poi arriva la conclusione dura ma reale: "Ho ricordi sereni di quel periodo, ma sono ricordi annebbiati, sono vecchie memorie".
Sono memorie.

Nel corso di una vita immagazziniamo pensieri, emozioni, momenti felici. Senza rendercene conto agiamo come dei piccoli bottegai, mentre rimestiamo nella nostra riserva della coscienza ammucchiando storie che un giorno potrebbero tornarci utili, in un modo o nell'altro.
Non siamo neanche a conoscenza della gigantesca mole di informazioni che è depositata nelle segrete del nostro cuore. Alcune memorie agiscono per noi come quelle candele impolverate che tiriamo fuori dai cassetti quando salta la luce elettrica in casa. Allo sguardo appaiono ridicole, eppure riescono a farci luce, quando ogni altra luce sembra spegnersi.

Sono volti, frasi, contesti, affetti. Siamo noi. Siamo una parte di noi che avevamo dimenticato. Vecchie memorie.
Siamo così bravi a nasconderci, che persino noi stessi a volte dimentichiamo chi siamo, e da dove veniamo.
Arriva sempre però qualcuno che con poche parole riesce a riportarci indietro nel tempo, qualcuno che con i dovuti stimoli ci fa volare a rimescolare quelle vecchie memorie che in alcuni momenti ci hanno reso felici.
Ecco la medicina per l'apatia, per lo scoramento.

Si dice che il contrario dell'amore non sia l'odio, ma l'indifferenza.
Aggiungo un'ulteriore lezione che mi arriva da alcuni studiosi che ritengono che la parola amore deriverebbe dal sanscrito mar, morte, di cui rappresenta l’esatto contrario: Amar, non-morte, ovvero immortale.

Eyal oggi è tornata sulle spiagge imbiancate di Gaza con la sua bambina, solo lei sa quanto questa memoria perdurerà nel corso delle sue giornate. Almeno per alcune ore tuttavia la parola Gaza smette di avere le dimensioni di un incubo e ritorna alle sue dimensioni originarie.
Vecchie memorie, rinchiuse in un cassetto.
Sempre in attesa di una chiave immortale.

Ale