Un uomo

Palestina/Israele

Intro
Questo brano vuole essere un immaginario viaggio all'interno della vita di un coraggioso attivista israeliano per i diritti umani con cui Operazione Colomba collabora quotidianamente nel villaggio di At-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron. Questo brano è stato scritto cercando, con presunzione, di immaginare come si può vivere, da israeliano, la scelta di essere un nonviolento vicino ai palestinesi e ricostruendo parte della sua storia personale.

Partendo dalle chiacchierate e dai racconti che a volte lui concede sul suo trascorso (ad esempio al gruppo Nonviolenza attiva) ho approfittato dei momenti di riflessione a casa, per mettere nero su bianco il modo in cui io percepisco quest'uomo straordinario. Forse perché non è solo il suo viaggio, ma anche il mio, anche il nostro. Spero vi piaccia e vi riconosciate anche voi in lui, come a me è capitato di riconoscermi nelle sue paure, nelle sue debolezze, ma anche nella sua costanza e nella sua voglia di vivere e lottare.
Ale
P.S. Le due foto linkate insieme a questo articolo, completano il testo.



Buongiorno a tutti,
mi chiamo Gavriel, e non so perché oggi il destino mi abbia portato a raccontarvi la mia storia.
Eccomi qui, mi trovo in mezzo a un campo coltivato da un anziano palestinese, quel signore che vedete laggiù seduto, intento a preparare il tè per noi e per la sua famiglia.
Sono quello che vedete in mezzo al raccolto, no; non quello alto con la barbetta, quello più a sinistra, con il cappellino di lana nero e la giacca rossa.
Oggi è una giornata particolarmente fresca, un vento proveniente dal Monte Hebron spira fin qui tra le colline.

Il signore che mi strilla in faccia in questo momento si chiama Amir Shlokocivz, è il capitano del reparto della Border Police mandato ad allontanare i pastori e gli agricoltori palestinesi dalle loro terre.
In qualsiasi occasione simile a questa probabilmente farei fatica a contenermi, le sue parole vomitate con tanta irruenza e arroganza mi spingerebbero a reagire con forza, inseguendolo nelle sue crociate per contrastarlo. Oggi tuttavia voglio andare con ordine, mettere una sorta di silenziatore alle sue invettive per elaborare uno dei meccanismi più complessi che conosca, aprirvi il cuore alla mia vita, alla mia narrazione.

Sono nato nel Giugno 1972. Mio padre era un costruttore e lavorava con gli arabi. Quindi per me gli arabi non erano qualcosa di lontano, che non conoscevo, ma li ho incontrati fin da molto piccolo. Per me sono sempre stati degli esseri umani. Ho memorie della loro presenza e delle loro figure, col tempo mi sono reso conto di quanto conoscere una persona, un popolo, possa essere un potente antidoto contro i veleni della propaganda e dell’odio.

Sono cresciuto in una famiglia tradizionale israeliana, molti miei parenti e cugini sono di destra e appartengono al movimento dei coloni nei Territori palestinesi occupati. Per molti anni ho vissuto come un piccolo seme che, a dispetto delle circostanze e delle tempeste che scuotono la sua fragile esistenza, riesce a preservarsi e a perseverare nella crescita. Il clima di ostilità e a volte di aperto razzismo che respiravi non mi ha impedito di custodire in fondo all’anima un desiderio di aria fresca.

Poi ho cominciato a crescere e a rendermi conto di quante ingiustizie dovevano subire, quegli arabi con i quali mio papà lavorava fin da piccolo, quelle figure, quelle sagome sfocate dai ricordi infantili cominciarono a prendere forma e a quella forma ho dato un nome: ingiustizia, qualcosa che non sarebbe potuto continuare per sempre.

Quanta fatica mi è costato mettermi in discussione, turbini di emozioni e di insicurezze si scontravano con quella parte di me che rifiutava il male, che lo condannava, che mi spingeva ad indignarmi. Ho avuto lunghe conversazioni e dibattiti con me stesso nel cuore della notte.

Ho scavato nel mio passato familiare, con tutti i dolori che esso comporta, mi sono interrogato sulle mie origini e sulle motivazioni che avevano spinto la mia famiglia a venire in questa regione dall’Est Europa. Ho trovato una storia di sofferenza, ma ho anche incontrato l’empatia con un altro crudele fato, quello del popolo palestinese, privato nell’ultimo secolo di tutto ciò che era rappresentativo di vita e fertilità. Ho percepito con orrore quanto quello che fosse successo fosse una degenerazione delle intenzioni dei nostri padri, dei nostri patriarchi, e ho avuto una chiarezza su quanto tutto ciò che noi vivevamo in Israele oggi fosse ingiusto.

Potete immaginare cosa significhi per un uomo rendersi conto che la sua vita si è costruita su una grande bugia? Su una grande ingiustizia? Significa sentire giorno dopo giorno il peso di un conflitto che non hai cercato tu, che non hai voluto tu, ma di cui senti profondamente la responsabilità. Un conflitto da cui ti senti legato a doppia mandata, pensate che sia giusto? Io penso di no, ma, di fatto, è così che mi sento, ancora dopo anni di attivismo in prima linea. Parte di una grande bugia,

Eppure io non voglio mentire, io non voglio trasformarmi in un fantasma senza idee, opinioni o sentimenti, io voglio essere un uomo giusto. Nella maturità decisi che non avrei voluto fare parte di questo sistema opprimente in alcun modo, rifiutando di fare il servizio militare. Sapevo a che cosa andavo incontro, o forse in fondo ne ero un po’ incosciente, sta di fatto che fu un’esperienza durissima, che ancora oggi in parte mi porto dietro nei miei rapporti con l’esercito. Provarono in tutti i modi a farmi svolgere la leva obbligatoria, fu un periodo d’inferno, l’immagine del potere del più forte mi perseguitò per settimane, prese in giro, umiliazioni. Io solo so quanto mi è costato cercare di mantenere la mia strada, la mia linea. Tutto sembrava muovere contro di me: la mia famiglia, la mia storia, eppure ho resistito. Dopo nove mesi si sono rassegnati e mi hanno mandato a casa.

Rimaneva comunque il fatto che continuavo a conservare dei freni, delle palle al piede che impediscono di volare, di inseguire i nostri istinti i nostri desideri, Queste palle al piede si chiamano convenzioni sociali, senso di impotenza, paura del cambiamento e del giudizio dei tuoi concittadini. Già, i miei concittadini, ho sempre avuto l’impressione che fossero come addormentati nella loro banale quotidianità, priva di un interesse verso il prossimo sofferente, verso i i disagi sempre crescenti dei nostri fratelli palestinesi. Mi informavo molto, in maniera radicale, e ogni singola notizia, ogni fotografia mi portava a sprofondare un centimetro di più nella vergogna e nel disappunto. Ho custodito ogni sentimento gelosamente nel mio intimo, senza farvi accedere nessuno, né la mia famiglia, né i miei amici, pensavo che non avrebbero capito, che fossi il solo a pensarla in questa maniera, ritenevo di essere uno dei pochi che avevano aperto gli occhi, che si fossero risvegliati dall’incubo, ma che per carattere e per solitudine sarei stato condannato all’immobilità. Ho sempre avuto un sentimento di ribellione, un’intenzione di fare qualcosa, ma non sapevo cosa, quella fiammata che periodicamente sentivo dentro il petto si estingueva dopo poco tempo, vivevo in bilico tra questo fuoco e i limiti che mi ponevo io stesso. Mi percepivo come una persona molto paurosa, come l’antieroe per definizione, come una piccola formica che nulla può contro elefanti più grandi di lei, che l’avrebbero sicuramente schiacciata se si fosse mossa contro di loro. Cosa può una formica contro un elefante? Cosa può la passione contro la paura?.

Qualcosa in questo mio imperfetto meccanismo di stabilità iniziò ad incrinarsi e a scricchiolare, come un domino a cui fai cadere la prima pedina e si trascina dietro tutte le altre. Il primo domino cadde con una manifestazione a Sheikh Jarra, dove sentii parlare per la prima volta dei Ta’ayush, questo gruppo di attivisti un po’ matti, molto attivi nelle colline a sud di Hebron, anche in questo caso mi sembrava un mondo fuori dalla mia portata, fuori dal mio carattere, dalla mia storia. Ancora una volta ogni fibra del mio corpo sembrava spingermi lontano da quell’universo. Ancora una volta sentivo che la paura del cambiamento voleva paralizzarmi, ma ci andai comunque, quella volta il fuoco della passione e forse anche un po’ della curiosità scacciò i fantasmi della paura e del rigetto. Presi quell’autobus, e fu un biglietto di sola andata, che cambiò la mia vita per sempre.

Il Sabato successivo ebbi uno scontro con un colono, il responsabile della sicurezza di Ma’on, era la prima volta che mi confrontavo apertamente con uno di questi individui, che mi confrontavo apertamente con la mia storia, con la storia di parte della mia famiglia, con le mie inquietudini. Venni travolto, anche fisicamente. Ho ricordi veloci di quel giorno, il colono che scende correndo armato e che cerca di colpire una pecora, io che sento una forza misteriosa dentro di me che mi spinge ad agire impulsivamente, seguendo il sentimento, mi avvicino e gli urlo di smetterla, lui mi butta a terra. Che mondo è mai questo? Fino a che punto può arrivare l’uomo nel suo delirio? Quel colono chiamò l’esercito e la polizia per accusarmi di averlo attaccato, ebbi un molto di timore crescente, mi si parò davanti a me una carrellata di immagini a cui il mio inconscio non era ancora abituato, non era ancora pronto a sostenere, il mio possibile arresto, detenzione in prigione, circondato da uomini armati che mi schernivano, mi umiliavano, mi facevano sentire piccolo. Una piccola formica in un mondo di elefanti, non era cosa per me, no davvero, e corsi via da quella valle. Quel giorno la polizia arrestò un altro attivista dei Ta’ayush.

In parte mi sentivo in colpa per questo avvenimento, in parte per consolarmi mi ripetevo: non succederà mai più, perché mai ho deciso di aprire quella porta della mia coscienza spingendomi così in là? Non l’ho mai fatto, ho sempre saputo che non era un mondo per me, che non ero un eroe, né un soldato da prima linea. Mi tornarono alla mente diverse volte ricordi dei nove mesi nell’esercito, delle umiliazioni subite dal potere e dalla divisa, rischiavo di caderci ancora, dopo tutto il lavoro fatto per rimuovere quel periodo e guardare avanti. Mai più, mi ripetevo, mai più tornerò con questi attivisti, loro sono in grado di farsi detenere, sono più coraggiosi di me, hanno più fuoco, hanno più passione. Io ho provato qualcosa che si è dimostrato più grande di me. “Buono a sapersi Gavriel”, mi ripetevo nelle conversazioni notturne tra me e me nel corso della settimana, “almeno ci hai provato, hai abbattuto il primo e ultimo muro, ma ora basta, devi tornare alla tua quotidianità”.

Eppure non so come né perché, ma la voce interiore tornò a parlarmi, e il Sabato successivo presi di nuovo quell’autobus, con quella gente. Ancora oggi non riesco a darmi delle spiegazioni razionali per quello che è successo, forse perché non ne esistono, forse perché oramai esiste solo quello che siamo disposti a vivere sulla nostra pelle. Da quel Sabato ogni attimo della mia vita è stato orientato verso questo scopo, verso la lotta all’ingiustizia diffusa, e ogni volta che mi trovavo in sensazioni di disagio, di paura, ecco tornare quel fuoco che mi spingeva ad andare oltre, e ogni volta ritornavo. Un mattone per volta, ho abbattuto a picconate quella parte di me che continuava a frenarmi e ho ricostruito un nuovo Gavriel.

Si dice che non si cambia diventando qualcuno che non si è, si cambia diventando qualcuno che si è già, diventando veramente noi stessi. Nel momento in cui senti che devi fare qualcosa, che è giusto fare qualcosa per lottare trovi dentro di te il potere e la forza di farlo, spazzando via tutto il resto.

Ho scoperto abilità dentro di me, che mai avrei giurato esistessero: coraggio, azione, pazienza. Fu come se un armadio invisibile spalancasse ogni volta le sue porte, ogni volta che ne sentivo il bisogno attingevo da risorse nuove, che mi davano e mi danno energia. Ogni volta mi sento come protagonista di un miracolo, il miracolo di me stesso, dell’aver trovato il vero me stesso. Dovremmo provarci tutti, almeno una volta nel corso dell’esistenza.

La mia vita è così cambiata, ho una nuova famiglia, gli attivisti dei Ta’ayush, dei Rabbini per i diritti umani, gli amici italiani di Operazione Colomba. Persone con cui condivido un cammino che cambia la storia e ti cambia nel profondo. Con queste persone a fianco quel senso di solitudine e di impotenza svanisce, non ero quindi solo io che provavo certe indignazioni, esisteva già un mondo di esseri umani attivo nel cambiamento. Dovevo solo fare quel passo, aprire quella porta su di me per scorgerlo.

Le attività crescevano sempre di più e mi sentivo sempre più coinvolto, sapevo che comunque alla fine sarebbe successo, quindi mi anticipai e mi licenziai dal mio lavoro. Lavoravo da casa giocando in borsa. Un vero modello di antieroe, ve lo avevo detto. Ho preso coraggio e ho fatto il salto finale, il salto che ti cambia definitivamente il destino. Come mi aspettavo questa cosa ha avuto delle ripercussioni nei miei rapporti familiari, a volte mi sembra di vivere in un cosmo a parte, legato con un nodo a questa strada, per cui faccio fatica a mantenere legami con persone con non sentono questa passione, che non hanno questa visione, è come se qualche forza invisibile mi tenesse lontano da coloro che vivono in una bolla lontano dal reale. Queste persone mi fanno stancare molto. Sono loro a vivere in una bolla, o sono io? Mi sembra così strano che non possano capire, che questa gente si abbandoni a pregiudizi, alle opinioni date dagli incravattati alla televisione, dai politici. Mi sembra inumano che per noi sia diventato normale occupare, respingere i migranti alla frontiera, creare dei ghetti e lasciare la gente vivere di stenti. Cosa siamo diventati?

Le memorie mi spingono all’immagine di mio nonno, sopravvissuto dell’Olocausto, ai suoi racconti delle atrocità che ha vissuto quel popolo. Il nostro popolo? Noi? Sento un senso di vertigine alla possibilità che stiamo diventando come i nostri carnefici, è così terribile. Io non sono così, non voglio essere così, ma non è forse vero che il mio benessere si basa sul fatto che altri sono schiacciati? Ed ecco tornare un’altra ossessione, servirà quello che faccio a ribaltare questo male?

Il pensiero viaggia e si appesantisce lungo le rotte delle mie riflessioni, delle notte passate insonni al lavoro al computer, pronto a scattare appena il telefono squilla. So che per molti della mia famiglia non è facile sentir parlare delle mie attività, vedere il mio nome sul giornale, vedere i miei video in cui denuncio ciò che fanno i coloni nei territori palestinesi, coloni come loro. Qualche volta lo percepisco, sono sensazioni sgradevoli, di insofferenza, di fastidio verso di me, di isolamento e di pressione. A volte è come se facessero di tutto per non farmi sentire amato, anche a costo di deridermi con i coloni che vivono nelle colline a sud di Hebron, dove lavoro.

Quanto peso mi porto dentro, a volte rischio di commettere l’errore che facevo gli altri anni, di tenermi tutto dentro. Rischio di ignorare i segnali che mi arrivano dal corpo per rallentare e rielaborare, ma è più forte di me, un fuoco che brucia e trasforma.

Non voglio creare del dolore a mio padre a cui voglio bene, ma al tempo stesso sento che non potrei mai rinunciare a questo cammino, con i mesi quindi passo dopo passo sono arrivato a creare delle distinzioni tra il mio ruolo come membro di famiglia e il mio ruolo come attivista per i diritti umani di pastori e agricoltori palestinesi. Ho creato due quotidianità diverse le une dalle altre, ho deciso di non avere niente a che fare con quel ramo dei miei parenti che ha fatto e fa scelte diverse in questo conflitto, certo non è facile sapere che parte della tua famiglia, del tuo sangue ti rinnega.

La mia decisione è molto profonda e se questo è il prezzo da pagare, è qualcosa che voglio pagare. Vivo in un paese malato, ancora una volta mi vedo ritornare all’età di sette anni, ad ascoltare i racconti di mio nonno. Rabbrividisco. Come siamo potuti cambiare così tanto? Chi è che ha davvero vinto in questa guerra?

Ogni giorno, ogni notte ritorna, il fuoco, la passione, il desiderio di cambiamento per me e per questo paese. Sono cambiato io, deve cambiare anche la mia gente, deve cambiare questa mentalità, e non posso fare altro che andare avanti e avanti. Se ripenso alla mia “vecchia vita” mi rendo conto che per certi versi alcuni aspetti erano più facili, spendevo molto di più di quanto spendo adesso e avevo uno stile di vita migliore. Eppure cosa mi dava quella vita? Se devo mettere su di una bilancia le mie emozioni ora e le mie emozioni pochi anni fa mi accorgo di quanto questo salto nel vuoto mi abbia donato. Quanto questa gente, israeliani, italiani e palestinesi mi abbiano dato. Siamo cresciuti insieme, siamo cambiati insieme, e non gli sarò mai abbastanza grato per questo. Tutto il resto, qualsiasi cosa è un prezzo che sono disposto a pagare, mamma mia, non avrei mai pensato di potere scrivere parole così.

La nostra vita, le nostre attività, ogni volta che un pastore riesce a ritornare sulle proprie terre, ogni volta che il grano cresce, di stagione in stagione, è una vittoria, è un passo avanti, anche per me.

Sono sensazioni molto profonde, scavate nella roccia dei cuori degli uomini, lo leggo negli occhi delle persone, il loro senso di gratitudine per quello che facciamo, a volte tra di noi si instaura una energia unica, particolare, capace di spezzare i legami della solitudine e della violenza. Siamo tutti in cammino, ed è un cammino che ho fatto anche io dentro di me, che sto facendo. Spesso gli amici italiani mi ringraziano molto per il fatto che sono sempre disponibile e attento ad ogni dettaglio, ma che altro posso fare? Questa è la mia nuova vita, il mio fuoco, la mia passione, non potrei fare altrimenti, è necessario andare avanti, sempre.

Ci sono notti in cui mi interrogo, in cui mi chiedo fino a che punto possano arrivare le persone, le istituzioni contro cui stiamo lottando. Ho paura che possa succedermi qualcosa, che possa succedere qualcosa alle persone a cui voglio bene. Pestaggi, arresti, respingimenti alla frontiera per gli italiani. Provo un brivido al solo pensiero. Perché? Perché non ci lasciano vivere? Probabilmente perché siamo tutti sulla strada giusta. Alcuni Sabati quando torno a casa sento che mi hanno rotto, spezzato nell’animo, a volte vacillo, sento il peso di tutta la mia umanità. Vecchi fantasmi di paura e insicurezza ritornano.

Ma spero di continuare. Devo.     

Ecco, questo è il mio percorso, fino ad oggi, ora torniamo su quel campo, dove mi avete trovato all’inizio. Il numero di militari è aumentato di molto, la mia tensione anche, un gruppo di coloni è uscito fuori da Suseya ed ha iniziato a provocare i palestinesi, come sempre. Esplodo “Perché non arrestate mai loro? Perché devono essere al di sopra di ogni legge?”. Il capitano della Border Police in tutta risposta dichiara area militare chiusa e mi intima di allontanarmi, se non voglio venire arrestato. “Vattene a casa, sinistroide amico degli arabi, vattene traditore del tuo popolo”.

Rifiuto e faccio qualche passo avanti. Due soldati mi prendono e mi trascinano via verso la camionetta, insultandomi. Tratti di antiche paure ritornano in me, volti familiari, ricordi dei 9 mesi nell’esercito, contemporaneamente però ritornano anche alla mente immagini amiche, positive, le persone a cui voglio bene: Amel, Ezra, Maria, Ibrahim, Omar, gli italiani.. ricaccio in dietro le mie paure. Non temo di essere arrestato, non temo quella gente.
Non più.