Cose di Zena

Palestina/Israele
O l'insostenibile leggerezza dell'occupazione.

Negli occhi di Zena ho visto la leggerezza. In quegli occhi chiari e brillanti ho sentito che il peso delle cose, delle difficoltà quotidiane, dell'occupazione svanisce con una risata. Negli occhi di Zena, che ha ventiquattro anni e non è sposata né vuole sposarsi. Dice che vuole conoscere la vita prima di trovarsi un marito.

 

Zena, che vive in un posto bellissimo, popolato da trecento anime, alle porte del deserto. Un insediamento antico, addirittura d'epoca romana a suo dire. Ché Zena conosce tutto di questo luogo, è curiosa ed appassionata. E non vorrebbe vivere da nessun'altra parte, in nessun'altra casa che non sia quella di suo padre, il rispettato hajj – colui che ha compiuto il pellegrinaggio alla Mekka. Una casa di pietre, una grotta con una bella porta antica, alta ed elegante.

Zena che ci racconta di come prima del 1999 lei e la sua famiglia, undici fratelli ed un padre che ha ormai ottantacinque anni, vivevano tra Yatta e Jinba. In città l'estate e l'autunno, nel villaggio alle porte del deserto la primavera e l'inverno. Ma guai a chiamarli beduini, ché i beduini sono tutta un'altra storia …

Zena, che tredici anni fa le è morto un fratello. E' morto sotto il fuoco israeliano, più o meno al momento dell'evacuazione di tutta l'area, dichiarata da Israele zona d'esercitazione militare. Mi racconta che i soldati hanno aperto il fuoco e sganciato delle bombe. Mi racconta che lei aveva undici anni, lui sedici.
In arabo esiste un verbo, che Zena ripete più volte : istashada, farsi martire. Suo fratello non è semplicemente morto: è morto martire – come sono morti tutti i Palestinesi dal '48 in poi. Mi mostra un ciondolo con una foto del fratellino, lo porta sempre in borsa.
Non le chiedo altro. I suoi occhi sembrano vuoti quando parla di lui, spenti e appesantiti. Ma dopo poco la leggerezza torna, e ci mettiamo a recitare antiche poesie arabe sotto la luna piena.

In uno dei suoi più bei romanzi, Milan Kundera s'interroga sul senso della leggerezza, e della pesantezza. Riprende il filosofo Eraclito e la sua rigida dialettica che conferiva un'accezione negativa alla pesantezza ed una positiva alla leggerezza. Eppure Kundera non è per niente convinto: perché anche la leggerezza può divenire insostenibile.

Ma Zena – come molti altri Palestinesi - m'insegna che la leggerezza è sempre preferibile. E' addirittura necessaria da queste parti. Perché ti fa ridere dei soldati che fanno irruzione dentro casa tua alle tre del mattino. E ti fa sopportare il fatto che tua madre, che soffre di cuore, si sia dovuta trasferire in città dopo quella notte, perché il cuore non le ha retto e deve esser costantemente seguita da un medico.
Ti fa sopportare l'insopportabile: l'occupazione, il lutto per un fratello morto troppo giovane, il non poter più vivere nel tempo e nello spazio come la tua famiglia ha sempre fatto sin dalla notte dei tempi.

Alla faccia di Kundera.

 

“Resistere significa: accertarsi della forza
Del cuore e dei testicoli, e del tuo male tenace:
Il male della speranza”
Mahmoud Darwish, Stato d'assedio