Ogni conversazione

Palestina/Israele

...poiché ogni conversazione è una palestra d'amore.

E' ciò che penso rispetto al relazionarsi a parole con i soldati dell'esercito israeliano.
Quando arriviamo qui come volontari non conosciamo né l'arabo, né i membri di questa comunità, né i loro usi e costumi. Cominciamo in punta di piedi, con delicatezza ad intessere relazioni, attenti a non esagerare ma allo stesso tempo disposti ad aprirci come speriamo loro facciano presto con noi.

Quando arriviamo inizia anche una ricca e complessa vita di gruppo, in cui è necessario lasciarsi essere, lasciar essere l'altro, tenere il passo dell'ultimo e allo stesso tempo non risparmiarsi e far sì che ognuno possa dare il meglio di sé. E' perfetta una metafora non mia al proposito: gruppo è come mettere tanti sassi appuntiti in un barattolo e ogni giorno scuoterlo, dopo un po' ci saranno ancora tanti sassi diversi ma con gli angoli decisamente smussati.
Queste relazioni, con il gruppo e con i palestinesi, vivono una crescente empatia e soprattutto fiducia reciproca di chi ogni giorno sceglie di mettere un po' della propria vita nelle mani dell'altro.
E' un processo lento che ci richiede energie, riflessioni personali e insieme, continui aggiustamenti... forze che mettiamo in gioco in questa condivisione per il bene che vogliamo ai palestinesi; per far si che quando ci troviamo nei campi o con le pecore o in tante altre situazioni, vi siano la sintonia e la fermezza necessarie ad abbassare il livello della violenza che ci troviamo ad affrontare.
Qui vi è poi un livello più alto di relazione, che è quello con le forze israeliane. Dico più alto non perché queste sono “forze” armate e in divisa, ma perché credo comprenda tutte le relazioni di cui parlavo prima e in più lo sguardo ad un orizzonte molto più ampio, che come Colombe è la pace per palestinesi ed israeliani. I soldati dell'esercito israeliano li incontriamo ogni giorno, e ci dispiace perché creano diversi guai ai palestinesi. In questo conflitto è infatti molto disequilibrata la bilancia della giustizia, per questo motivo noi da anni ci “schieriamo” vivendo ad At-Tuwani.
Viviamo però anche a Gerusalemme ovest per coltivare amicizie israeliane, per mantenere ampio e presente l'orizzonte di pace.
Questi luoghi, e purtroppo questo conflitto, sono dei palestinesi che diventano nostra famiglia, degli israeliani amici sinceri e anche dei soldati israeliani, qui nelle colline a sud di Hebron.
Questo non significa normalizzare, smettere di pensare che loro qui non dovrebbero esserci, smettere di schierarsi con chiarezza dalla parte dell'ingiustizia. Per me significa umanizzarli, grande e difficile frutto di un cammino nonviolento, vedere l'uomo o donna giovane israeliano sotto la divisa e quando è possibile approcciarsi a loro con la stessa delicatezza e voglia di verità che usiamo nelle altre relazioni che intessiamo qui.
Non decontestualizzare ma tener presente che il contesto è grande, non giudicare ma condividere ciò che noi qui abbiamo compreso, rispettando l'altro per la dignità che ha una persona e non ha invece l'arma che porta, raccontare le colline a sud di Hebron e magari anche le amicizie israeliane ma sempre in quanto testimoni anche se molto “impastati”; attenti sempre a tutti i protagonisti di questa storia, che non siamo noi e per i quali stiamo parlando proprio con lui/lei.
Ecco perché tengo a mente che qui ogni conversazione è davvero una palestra d'amore, un allenare il bene che iniziamo a provare per palestinesi ed israeliani e per il loro futuro di pace e convivenza.

S.