Il silenzio - Stream of consciousness da un albero

Palestina/Israele

Questa mattina sono salita all'albero dei pensieri, decisa a ritagliarmi un momento di meditazione nel silenzio. Il silenzio... prima della partenza mi ero convinta che a Tuwani sarei riuscita a trovarlo, forse solo per il semplice fatto di essere lontana dalla mia rumorosa vita italiana.

E invece davanti a me ho trovato il suono di un'altra vita, scandita da cose, ritmi e tempi diversi, ma che si impone nella desolazione di questa terra semi-desertica quasi stesse urlando: "hey! Io ci sono!". Questa terra occupata. Forse non era del silenzio che avevo bisogno, ma di riscoprire il rumore della resistenza, racchiusa in un'esistenza fatta di cose semplici e di essenziale.  
E così ho iniziato a notare le risate dei bambini palestinesi, le loro voci, i loro pianti provenienti da ogni casa del villaggio, nella quale per giocare essi devono accontentarsi della compagnia l'uno dell'altro.
Poi ho scoperto le voci delle donne, che ad intermittenza si alzano dagli angoli del cortile di una casa, che hanno passato la mattina a pulire. Una parte di me si annulla nel pensiero di una vita sobria, in cui dare la vita e farla continuare diventa l'unico scopo, i lavori di casa l'unica preoccupazione. Vorrei chiedere a queste donne se gli piacerebbe essere diverse. Proprio sulla diversità mi sto interrogando in questi giorni... sul diritto ad essere e rimanere diversi, sulla volontà consapevole di questo mondo - e non solo - di non diventare come noi modernissimi occidentali.
Nel riflettere sull'importanza di certe scelte, il pensiero si interrompe, questa volta per il belare di una capra. Gli animali sono la ricchezza di questo villaggio ed i loro versi si sovrappongono costantemente a quelli dei bambini, per ricordarci che questo mondo è abitato tanto da noi quanto da loro. Uccelli, pecore, capre, asini, galli, galline, tacchini, cani, gatti, scordati in un unico concerto che si intona però con il resto della vita, delle vite, dei palestinesi.
Il passaggio di qualche macchina scassata mi ricorda le vie di casa, il rumore dei trattori, la fatica del lavoro. Un lavoro che qui manca, come in Italia. Che costringe tanti ragazzi nell'illegalità di una vita clandestina per lo stipendio a fine mese... un po' come in Italia, con l'esclusione di tutti quei diritti che l'appartenere ad un'Europa unita ci garantisce. Unione... una parola che risuona in me come una bestemmia, lapidaria anche solo se pensata. È nata in un territorio come questo ed ora, adolescente, rischia di cadere prostituta nelle mani di una causa sbagliata che in cerca di vendetta raduna attorno a sé un popolo facilmente votato alla violenza. Un po' per questo mi trovo qui adesso. Perché l'importanza di nutrire l'unità di un popolo con parole ed esempi di nonviolenza è una delle sfide più grandi. Il terrore, quello che tredici anni fa ha cambiato per sempre le nostre vite, quello che impervia in questi giorni per le strade di Gerusalemme e che non avrà fine finché una delle due parti non sarà cauta, non può e non deve essere la soluzione. Dalla cima di questo albero osservo la grandezza del genere umano. Non è quella dei grattacieli, delle astronavi, della tecnologia - schiava anch'essa dell'impresa bellica. È la grandezza interiore che ci portiamo dentro, capace di grandi cose.
Il mio pensiero si interrompe ancora. Questa volta sono i droni e gli aerei da guerra che sfrecciano invisibili sopra la mia testa. Sfilano verso la firing zone, a qualche chilometro da qui. Ci sono giornate in cui il rumore è così costante che quasi non te ne accorgi più. E allora qualcosa dentro di te è scattato. La cosa che più mi spaventa della guerra e dell'occupazione è la loro capacità di entrarti dentro ed imporsi nella tua vita piantando il seme della rassegnazione. Così le demolizioni diventano ore, le violazioni dei diritti giorni, le ingiustizie mesi, la violenza vita. Il pensiero rimane incatenato ad una realtà disarmante.
Adesso, la moschea canta in lontananza, "Allah akbar". Dio è grande. È ciò che urlano i giovani legati al tritolo prima di “guadagnarsi un posto in paradiso”, prima di cancellare tutto ciò che di umano c'è nell'uomo. È ciò che gridano i bambini di Um Al Kher contro le macchine dei soldati e della DCO, venute ancora una volta a privare loro del diritto di esistere. Urlano per ricordare a quegli uomini col fucile che c'è qualcosa di più grande della loro violenza. Lanciano sassi perché la loro innocenza è già stata sporcata e la violenza ricevuta non ha fatto altro che provocare in loro il primitivo senso di rabbia, che porta ad altra violenza. "La terza intifada inizia da qui" dice sorridendo il signore svizzero accanto a me. Un lato della mia bocca si contrae, quasi a voler rispondere al suo sguardo con cortesia. Anche il mio stomaco si contrae. Dentro quelle parole si nasconde una verità con cui non sono ancora pronta a fare i conti.

La strada della nonviolenza, adesso, passa per Tuwani, per tutta la Palestina, fino a Gerusalemme. Passa davanti alle nostre case, tortuosa, impervia, quasi impraticabile. Ha bisogno di noi, dei nostri passi, per essere battuta.
Qui, tra i rumori della vita che continua, io sto imparando a camminare.