Normalizzazione

Palestina/Israele

Nonostante sia venuto un buon numero di volte in Palestina, ho sempre faticato a crearmi un'immagine concreta del concetto di normalizzazione.
Cercando una definizione, quella che mi è parsa più vicina all'idea che ne ho io è la seguente: il processo in cui relazioni normali vengono riprodotte in un contesto segnato da circostanze anormali. Conoscevo un certo numero di accadimenti a cui questa parola era stata accostata, per alcuni mi pareva calzante, per altri un po' meno.

Comunque rimaneva sempre un concetto dai contorni fumosi e poco chiari nel concreto, o che perlomeno rischiava di scontrarsi con le esigenze imposte dalla realtà di fatto che troviamo qui sul campo.    
Sono stati un paio di gesti di alcuni soldati israeliani a schiarirmi meglio le idee. Gesti semplici e apparentemente poco significativi, che come spesso accade qui si portano però dietro significati profondi.
Ho incontrato i due soldati in questione mentre l'esercito israeliano stava impedendo ad alcuni contadini palestinesi di raccogliere il grano nella parte finale di uno dei loro campi, perché le coltivazioni sono troppo vicine all'avamposto illegale di Avigayil. Sul novanta per cento del campo si poteva raccogliere, sul restante 10 per cento no, è necessario che il padrone palestinese del campo richieda all'esercito israeliano il permesso di raccogliere con due settimane di anticipo. Inutile cercare di spiegare ai soldati che le coltivazioni non aspettano i tempi della burocrazia e che quindi quando è il momento di raccogliere non è sempre prevedibile con alcune settimane di anticipo. Inutile anche il tentativo di portare a galla la mostruosa contraddizione per cui un palestinese che ha legalmente la proprietà di un campo debba richiedere un permesso per poterci accedere perché un colono israeliano ha deciso di piantare la sua casa, illegale anche per la legge israeliana, troppo vicina al campo in questione. Quando ho tentato di parlare di questi semplici concetti la risposta ricevuta è sempre stata "io di queste cose non mi occupo, noi seguiamo solo gli ordini, noi guardiamo solo le mappe". A differenza di altre volte però i due soldati in questione sono stati gentili, educati, direi professionali in senso positivo, ed uno dei due ha evitato l'arresto di un palestinese convincendo un poliziotto a lasciare perdere dopo che questo aveva un po' perso le staffe.
Alcuni giorni dopo ho incontrato nuovamente i due soldati in contesti diversi, uno durante una visita dei coloni israeliani ad una piscina di una città che si trova in area A, scortati da svariate decine di soldati; l'altro durante lo school patrol. Entrambi i soldati quando mi hanno visto mi hanno salutato educatamente e sorridendomi in modo sincero hanno fatto per darmi la mano. La prima volta ho ricambiato la stretta, la seconda volta no. Ho ancora dei dubbi su quale delle due scelte sia stata corretta, forse entrambe sono giuste da un lato e contemporaneamente sbagliate da un altro. Quello che mi ha portato però a decidere di non ricambiare la seconda stretta di mano è stato rendermi conto che quel gesto amichevole, quel sorriso ad accompagnare il saluto erano mossi dalla consapevolezza di stare svolgendo il proprio lavoro in modo corretto e per questo contesto per nulla scontato. I due soldati sapevano entrambi che si erano comportati con me e con i palestinesi in uno dei migliori modi possibili ad un soldato israeliano. Tutto questo era vero e difficilmente avrei potuto sperare di avere a che fare con soldati "migliori", ma una parte di questo contesto in quel gesto veniva cancellato, dimenticato o non considerato: il ruolo che quei due soldati ricoprono è quello di servizio in un esercito che occupa queste terre da decine di anni, un esercito che quotidianamente rende la vita dei palestinesi difficile se non impossibile. La divisa da soldato si porta appresso le risposte avute nei discorsi dei giorni precedenti, "io seguo solo gli ordini", "io mi attengo solo alle mappe che mi danno", "certi discorsi preferisco non farli".  
Penso che la normalizzazione sia proprio questo, togliere il contesto, ignorare le mostruose ingiustizie che l'occupazione militare israeliana compie ogni giorno in terra di Palestina, dare quasi per scontato la situazione attuale e valutare ogni comportamento e ogni gesto come se ciò che vi è attorno non contasse nulla. Credo che la normalizzazione porti a pensare che sia possibile compiere in modo giusto un compito ed un ruolo che sono parte integrante di un'enorme ingiustizia. Credo che uno dei nostri ruoli qui sia anche quello di ricordare, a noi stessi in primis, che la presenza di un esercito occupante non è "normale", che un palestinese debba chiedere un permesso per poter accedere alle proprie terre non è "normale", che un pastore mentre sta portando il gregge al pascolo nelle terre di famiglia debba fornire le proprie generalità e i documenti ad una pattuglia di soldati di leva non è "normale". Penso che la nostra sfida più grande sia quella di trovare il modo di ricordare che qui si compie ogni giorno un'enorme ingiustizia, che non esiste un modo giusto di seguire leggi ed ordini ingiusti, e contemporaneamente riuscire a stabilire un contatto umano quanto più vero e profondo possibile anche con chi si presta ad essere strumento di queste ingiustizie.
P.