Un giorno a Tuwani

Palestina/Israele

Suona la sveglia. Rimando. Risuona. Mi alzo. Uscendo dal sacco a pelo il freddo mi assale come un'onda. Devo resistere, resistere fino a togliere il pigiama e vestirmi. I vestiti sono gelidi, ma dopo starò meglio. Maglia termica, felpa, pile, strati su strati. Sento la moka che gorgoglia, qualcuno ha già messo su il caffè.

 

Cerco di fare piano per non svegliare chi ancora dorme: ogni mattina in due a turno ci svegliamo alle sei e mezza. Prima delle sette dobbiamo essere di vedetta su una collina fuori dal villaggio per controllare da lontano i bambini che da Tuba vanno verso scuola. Tra noi e loro le case dell'avamposto israeliano.
Oggi tocca anche a me uscire per prima. Bevo il caffè bollente nella speranza che mi scaldi un pochino, afferro due biscotti al volo, il tempo per una vera colazione non c'è.
Scarponi ai piedi, telecamera a tracolla e si parte.

Il villaggio fuori è più sveglio di me. Saluto con un cenno i bambini già impegnati a giocare e le donne che sbrigano le faccende della mattina. Una salita ripida e sono fuori dal villaggio: una valle di ulivi alla mia destra, a sinistra un boschetto minaccioso e all'orizzonte colline brulle che degradano sempre di più verso il deserto. Altri dieci minuti di cammino e arriviamo alla nostra postazione. Da qui, nelle giornate limpide si scorgono i grattaceli delle prime città israeliane dopo il confine, costruite nel deserto, e più lontane ancora le montagne.
Ci concentriamo sui bambini, li osserviamo da lontano finché non incontrano i soldati e spariscono dietro la colonia. Davanti a noi, a una paio di valli di distanza i coloni occupati nelle stesse faccende mattutine dei palestinesi, anche qui i bimbi si preparano per la scuola. A volte qualcuno interrompe la routine mattutina per venire a inseguire noi o i bambini palestinesi, per impedirgli di arrivare a scuola.

Al ritorno la casa è tutta sveglia: la moka è di nuovo sul fuoco e questa volta c'è il tempo per una vera colazione. Piego il mio sacco a pelo e sposto il materasso che per stanotte mi ha fatto da letto: la stessa stanza dove dormiamo di giorno diventa il nostro ufficio, salotto, guardaroba...
Con la colazione arrivano anche gli ospiti: vicini di casa o altri attivisti in cerca di un caffè italiano e di programmi per la giornata.
Ci dividiamo in base alle cose da fare, che non sono mai le stesse. Qualcuno esce con i pastori, qualcuno visita altri villaggi, qualcuno rimane a Tuwani a presidiare la casa, nel caso passino persone che ci cercano. Adesso il lavoro principale è di semina della terra: per lunghe ore stiamo a osservare il trattore o il mulo con l'aratro che smuovono il terreno e i semini ci piovono sopra, lanciati da mani esperte. A ogni movimento sospetto le mie mani invece cercano la videocamera: accensione, zoom, cosa sarà stato? Soldati? Coloni? Se arrivano ci parliamo o scappiamo? L'importante per oggi è non farsi confiscare l'aratro.

A mezzogiorno e mezzo le prime grida allegre: i bimbi più piccoli sono usciti da scuola e si riversano pieni di energia per le stradine del villaggio. Qui niente SUV e baby-sitter che passano a prendere i piccoli. Corrono fuori a giocare liberi, finché non gli viene fame o le madri non li richiamano per pranzo. I bambini di Tuba però non hanno ancora finito la giornata.
Preparo i fogli, i colori e i giochi: i soldati non arriveranno prima di un'ora, e nelle giornate fredde aspettarli fuori non si può. La nostra casa è invasa da urla e zainetti, i bambini sono come un terremoto. "Guarda qui, oggi la maestra mi ha messo bravissimo, guarda qui oggi ho imparato a scrivere le lettere del mio nome!"
Quando anche i più grandi sono arrivati, andiamo tutti insieme verso i soldati, che spesso sono in ritardo, e bisogna aspettare un quarto d'ora, mezz'ora, un'ora. I piccoli hanno fame e sonno, i grandi sono arrabbiati. Per far passare il tempo veloce giochiamo a rincorrerci, accendiamo piccoli fuochi per scaldare le mani ghiacciate, parliamo della scuola e di cosa hanno fatto, cosa dovranno studiare nel pomeriggio. Quando i soldati arrivano scendono dalla jeep, armati di mitra. I bambini ci salutano e gli vanno incontro. Preferirebbero camminare da soli, o con noi, ma sanno che i soldati sono un ammonimento efficace per tenere lontani i coloni che tante volte li hanno aggrediti e spaventati.

Io torno a casa, è ora di pensare al pranzo, per chi di noi non è ancora fuori a seminare o con le pecore. Il pomeriggio scivola via veloce in inverno, le ore di luce sono poche e dopo il pranzo, il caffè e qualche aggiornamento sulla mattinata è già finito. Con il buio accendiamo la stufa. I ragazzi del villaggio si radunano qui per il tè, zuccheratissimo e profumato con il timo. Arrivano uno alla volta, e sanno già di trovare gli altri qui. Molti di loro hanno iniziato l'Università a Hebron e tornano al villaggio esasperati: muoversi è sempre più difficile. A volte aspettano anche più di un'ora per passare il checkpoint e uscire dalla città. Arrivano a casa nostra frustrati e arrabbiati nei confronti di un'occupazione che ogni giorno li punisce per crimini che non hanno commesso. Nella loro vita universitaria non ci sono aperitivi, biblioteche e serate. A volte avrebbero voglia di rompere qualcosa, tirare un pugno, sfogarsi. La mia vita è facile in confronto alla loro, tutto quello per cui loro devono sudare a me è dato di Diritto. La vita con loro e l'amicizia che si crea è come un campanello, per ricordarmi sempre che sono privilegiata.

La cena qui è presto: a volte qualche famiglia del villaggio ci invita a mangiare. Quando succede sono molto felice, so che passerò un paio d'ore in buona compagnia e gusterò ottimi manicaretti: zuppa di lenticchie, riso con verdure e pollo, e delizioso pane fatto in casa. I nuovi volontari si presentano, provano le parole di arabo appena imparate. Ormai con molte famiglie mi sento a casa, passare la serata con loro è come passarla con vecchi amici. So che cosa hanno passato, in molti casi ero di fianco a loro e in tanti altri casi mi hanno raccontato le loro avventure in serate come questa.

Dopo l'ennesimo tè torniamo a casa, domani mattina la giornata inizia di nuovo presto. Apro la porta scricchiolante di casa sperando che ci sia abbastanza acqua per potermi lavare un po', altrimenti vorrà dire che domani mattina bisognerà scendere al pozzo per prenderla. Rimetto il materasso in ufficio e tiro fuori il sacco a pelo. Mi rintano al calduccio e il pensiero vola via prima di sparire dentro un sogno.

M.